I mali della scuola italiana
Riceviamo e pubblichiamo.
Se possibile, vorrei riassumere in una sorta di compendio, non “manualistico” ma demistificante, quelli che, dal punto di vista di un insegnante, costituiscono i problemi più urgenti e assillanti che pregiudicano e condizionano molto negativamente la vita e il funzionamento della scuola pubblica italiana.
Probabilmente, nell’immaginario collettivo la scuola è recepita e considerata in modo fallace e distorto a causa di insulsi e banali clichè, ovvero sulla base di facili e comodi luoghi comuni estremamente diffusi tra le persone, ma che in effetti corrispondono a false leggende metropolitane che bisognerebbe provare a sfatare con argomentazioni razionali e persuasive.
Riforme e controriforme
In genere si ciarla molto degli annosi “mali” che opprimono la scuola italiana, ma le autorità istituzionali deputate a rispondere non si adoperano minimamente a risolvere le questioni in modo concreto ed incisivo, ma soprattutto corretto e tempestivo. In ambito politico, ogni tentativo di soluzione non può essere efficace se non è anche giusto e tempestivo: le ingiustizie finiscono per diventare conseguenze peggiori delle cause. Per la serie “quando il rimedio è più nocivo del male”. In politica il decisionismo e l’efficientismo devono essere aggiustati e calibrati mediante criteri di equità e di equilibrio sociale, altrimenti rischiano di essere profondamente deleteri arrecando danni difficilmente riparabili, che inevitabilmente si sommano e si sovrappongono ai guai preesistenti.
Negli ultimi 15/20 anni i vari ministri che si sono avvicendati a capo del dicastero della Pubblica Istruzione (qualcuno ha persino deciso di derubricare l’aggettivo “Pubblica”, tradendo in tal modo le proprie intenzioni) hanno provveduto solo a progettare e varare la propria ipotesi di “riforma scolastica” per apporre la propria firma, lasciando un segno (inevitabilmente infausto e negativo) nella storia.
Insomma, la scuola pubblica italiana è diventata una vera e propria cavia istituzionale, soggetta ai continui e reiterati esperimenti di riforme e controriforme che si sono rivelate assolutamente devastanti in quanto applicate in modo improvvido e sconsiderato.
“Fannulloni” e “supermanager”
Restando al livello delle alte sfere istituzionali notiamo come, periodicamente, si affacciano schiere di “zelanti” moralisti, predicatori e sputasentenze che, come tanti Soloni saccenti e presuntuosi, sono disposti a crocifiggere i presunti “lavativi” e “perditempo” che imperverserebbero nel comparto della Pubblica Amministrazione, quindi anche nel settore della scuola pubblica. Come se i “fannulloni” e lo “scarso rendimento” degli insegnanti fossero la principale causa dei mali che affliggono la scuola pubblica italiana. Nel contempo si vorrebbe far credere che in quella privata si lavora e si produce senza sosta e senza sprecare tempo e soldi: forse questo spiega le ragioni per cui i finanziamenti statali, invece di essere destinati alle scuole pubbliche vengono dirottati a vantaggio di quelle private?
Come non sembra essere un “infingardo pelandrone” il neoministro Renato Brunetta. Il quale, appena insediatosi al vertice del proprio dicastero istituzionale, evidentemente ossessionato dal mito stacanovista, si è prontamente attivato per promuovere una vasta e martellante campagna anti-fannulloni. Richiamandosi ad una teorizzazione (rivisitata) di Mao Tse Tung che ha influenzato ed ispirato la rivoluzione culturale cinese, il “neomaoista” Brunetta ha affermato in tono solenne che “bisogna colpirne uno per educarne cento”. Bene.
Allora, si inizi a dare l’esempio al vertice dello “Stato-azienda”, a partire proprio dai quadri dirigenti più elevati che hanno dimostrato di essere assolutamente inefficienti ed improduttivi. Se non addirittura fallimentari. Penso, tanto per citare il primo esempio che mi viene in mente, ai dirigenti pubblici che hanno affondato e rovinato la compagnia di bandiera dello Stato italiano, l’Alitalia.
Questi “solerti supermanager” ricevono uno stipendio annuo che si aggira intorno ai 500 mila euro, vale a dire oltre 1300 euro al giorno! Tale cifra è pari, se non superiore al salario mensile (non giornaliero) percepito da un insegnante qualsiasi o un operaio medio.
Lascio a voi giudicare (liberamente e onestamente) l’estrema iniquità e la sperequazione di questa forbice tra i redditi più alti e quelli più bassi. Un divario scandaloso che è destinato non a ridursi, ma ad allargarsi progressivamente. Come è già accaduto negli ultimi anni.
Dopo queste considerazioni preliminari, voglio provare ad esporre nel dettaglio le singole questioni problematiche da me ipotizzate. Sulle quali propongo di ragionare senza quelle ingombranti difficoltà generate da sciocche prevenzioni e rozzi pregiudizi mentali, come possono essere i soliti, vuoti e sterili discorsi ricorrenti nei bar e tra la gente. Si tratta di frasi fatte derivanti da grossolane persuasioni comuni che circolano diffusamente nell’opinione pubblica nazionale a proposito dei lavoratori statali.
I peggio pagati in Europa
Anzitutto, specie dopo la precedente riflessione, ritengo che il personale docente non sia adeguatamente “valorizzato”. Con tale espressione intendo riferirmi non solo allo scarso rilievo morale e al basso prestigio sociale che ormai la mentalità comune riconosce alla professione docente, bensì mi richiamo anche e soprattutto al temine “valore” inteso in senso marxiano, vale a dire sotto il profilo squisitamente economico-monetario. Insomma, occorre attingere al budget ministeriale per incrementare e migliorare gli emolumenti mensili assegnati agli insegnanti italiani, che risultano i peggio pagati in Europa. E non si tratta di un facile luogo comune.
Infatti, qualcuno mi spieghi come un insegnante che percepisce una retribuzione media che può aggirarsi intorno ai 1200 euro mensili al netto delle imposte trattenute alla fonte, può concedersi il “lusso” di pagare corsi di formazione e di aggiornamento professionale, come può permettersi di acquistare libri, materiali didattici e vari sussidi tecnologici quali cd multimediali, programmi ed altri componenti essenziali al normale funzionamento di un computer (si pensi solo ai costi delle stampanti, delle cartucce per l’inchiostro, ecc.), insomma tutto quanto occorre per informarsi ed aggiornarsi sul piano culturale e professionale.
Ho citato un caso abbastanza dozzinale ma emblematico, che tutti possono valutare facendo un calcolo matematico approssimativo, per far comprendere cosa significhi realmente, quante spese effettive comporti lo studio e l’aggiornamento in un campo professionale come l’insegnamento. Un impegno che non è solo assai difficile e faticoso sul piano mentale, ma è altresì oneroso sotto il profilo economico. Per cui non è più alla portata della maggioranza degli insegnanti italiani. I quali sono notoriamente i meno pagati in Europa.
Progettifici scolastici
Un altro problema molto serio avvertito (non solo) dal corpo docente, è senza dubbio quello delle cosiddette “attività aggiuntive” a carattere non obbligatorio, vale a dire gli impegni e le iniziative progettuali di tipo extra-curricolare. Mi riferisco in modo particolare ai progetti cosiddetti P.O.N. e P.O.R. finanziati con fondi e sovvenzioni di provenienza europea, nazionale e regionale.
Nel campo della didattica e dell’istruzione scolastica i criteri di quantità e qualità sono in genere difficilmente compatibili tra loro, nel senso che l’una esclude l’altra. In genere la quantità di tipo “industriale” rischia di inficiare e compromettere la qualità di un progetto. Ciò è vero a maggior ragione in un sistema scolastico-educativo, laddove i progetti sono prodotti in serie, praticamente standardizzati. In tal modo le singole istituzioni scolastiche rischiano di diventare vere e proprie “fabbriche di progetti”, ossia “progettifici scolastici”. Con inevitabili ripercussioni negative sulla qualità e sul successo della formazione dei giovani.
Personalmente non sono contro i “progettifici” per rivendicazioni ideologiche astratte, schematiche e semplicistiche, ma per ragioni concrete legate alla mia esperienza diretta. Nulla mi impedirebbe di essere favorevole ai progetti di qualità, purché siano attuati sul serio, ma nel contempo sono cosciente che i casi virtuosi sono eccezioni molto rare. Invece, i “progettifici scolastici” si caratterizzano negativamente per vari motivi, anzitutto per una scarsa intelligenza creativa e un’insufficiente trasparenza non solo formale o procedurale, per un livello di inefficacia e inadeguatezza degli interventi, per un’esigua e debole rispondenza alle reali esigenze psicologiche, formative, culturali e sociali degli studenti, mentre obbediscono solo ad una logica affaristica e aziendalistica.
Per non parlare dei continui, imbarazzanti strappi alle regole, delle reiterate violazioni di norme e diritti sanciti dalla legge, delle frequenti scorrettezze commesse all’interno delle singole scuole, derivanti da invidie, gelosie e rivalità individualistiche, ovvero da altre meschinità e grettezze di origine piccolo-borghese.
Trasparenza e democrazia collegiale
Veniamo alla questione della scarsa trasparenza nella gestione politico-amministrativa ed economico-finanziaria delle scuole e al tema della democrazia collegiale che ormai versa in condizioni estremamente fragili, critiche e decadenti.
Dall’emanazione nel 1974 dei Decreti Delegati che istituirono varie forme e strumenti di democrazia collegiale nella scuola, la partecipazione alla vita e al funzionamento degli organi collegiali si è progressivamente ridimensionata e deteriorata, fino ad essere sancita solo sulla carta. Oggi il potere decisionale detenuto ed esercitato all’interno degli organi collegiali (Consigli di Istituto, Collegi dei docenti, Consigli di classe, interclasse e intersezione) esclude sempre più la maggior parte delle famiglie, degli studenti, del personale docente e non docente. In pratica l’esercizio del potere politico-decisionale nelle singole realtà scolastiche è riservato ad una ristretta cerchia oligarchica formata dal Dirigente scolastico e dai suoi più stretti e fidati collaboratori.
Esaminiamo il caso emblematico di un organo collegiale come il Collegio dei docenti.
Un tempo il Collegio dei docenti era la sede deputata a discutere gli argomenti più elevati, tematiche psico-pedagogiche e didattiche, per cui gli insegnanti, specialmente i colleghi più aperti, curiosi e motivati, culturalmente preparati e coscienti, avevano modo di confrontarsi e maturare sotto il profilo intellettuale e professionale.
Oggi i Collegi dei docenti sono stati ridotti a centri di ratifica puramente formale delle decisioni assunte dai Dirigenti scolastici e dai loro collaboratori. Tale avallo avviene in genere attraverso modalità procedurali assolutamente acritiche ed esautoranti, che negano ed umiliano la dignità e la sovranità dei Collegi stessi.
In pratica i Collegi dei docenti (o, volendo ricorrere a una formula dissacrante ma efficace, intrisa di amaro e osceno sarcasmo, i “Collegi degli indecenti”) sono diventati il luogo più alienante e passivizzante in cui al massimo si dibatte di questioni di ordine prettamente economico-finanziario, ma senza la necessaria e dovuta trasparenza informativa, ovvero senza fornire tutte le informazioni e i dati relativi al budget effettivo di spesa delle scuole. Insomma, i Collegi dei docenti avallano senza neanche conoscere fino in fondo l’oggetto reale sottoposto all’attenzione degli organi collegiali, vale a dire somme, fondi e finanziamenti, in alcuni casi cospicui, che vanno a beneficiare e sovvenzionare un’esigua minoranza di colleghi, coincidente quasi sempre con la ristretta cerchia composta dal cosiddetto “staff dirigenziale”.
Dall’autonomia scolastica alla “controriforma Moratti”
Da oltre 15 anni la scuola pubblica italiana assiste ad un graduale e inarrestabile declino e indebolimento della democrazia partecipativa, in modo particolare dell’agibilità democratica e sindacale e degli spazi di libertà e legalità vigenti al suo interno.
Tale processo di logoramento e di involuzione in senso autoritario e antidemocratico, è dovuto ai colpi letali inferti, senza soluzione di continuità, dai governi sia di centro-sinistra che di centro-destra. Nel caso specifico, le principali responsabilità politiche di tale decadimento sono da rinvenire in due momenti storico-legislativi assai importanti e determinanti: l’istituzione della legge sulla cosiddetta “autonomia scolastica” e l’applicazione della legge n. 53/2003, meglio nota come “riforma Moratti”.
Negli ultimi anni è stato possibile sperimentare come l’avvento della tanto decantata “autonomia scolastica” e l’attuazione della succitata “riforma Moratti”, non hanno sortito esiti apprezzabili in termini di apertura della scuola verso le reali esigenze del territorio.
La mera formulazione giuridica della “autonomia” non ha stimolato le singole scuole ad esercitare un ruolo davvero incisivo e trainante, di intervento critico-costruttivo e di promozione culturale rispetto al contesto socio-economico e politico di appartenenza.
In molti casi, le istituzioni scolastiche ribattezzate come “autonome”, hanno assunto una posizione subalterna verso i centri di potere vigenti nelle realtà locali, e mi riferisco anzitutto alle Pubbliche Amministrazioni, assolutamente incapaci o restie a supportare finanziariamente un arricchimento della qualità dell’offerta formativa delle scuole.
A tutto ciò si aggiunga un progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali, sindacali e politici tra i lavoratori della scuola, in quanto questa è diventata il teatrino di sempre più estese e laceranti conflittualità. Questi fenomeni di disgregazione sono una conseguenza prodotta proprio dalla tanto osannata “autonomia”, nella misura in cui tale provvedimento normativo non ha generato un assetto organizzativo stabile, equo ed efficiente, ma in moltissimi casi ha generato solo confusione, contrasti, assenza di certezze, violazione di regole e diritti, sia sindacali che democratici, favorendo e incentivando comportamenti furbeschi, autoritari ed arroganti, esasperando uno spirito di arrivismo e di accesa competizione per scopi prettamente venali e carrieristici.
Dal “ciclone Moratti” all’”uragano Tremonti-Gelmini”
Per illustrare in modo chiaro ed efficace il mio punto di vista critico sull’azione “terapeutica” esercitata dal ministro Gelmini potrei ricorrere ad una metafora molto semplice ed eloquente: penso che la Gelmini stia operando come quel medico che per “rianimare” un paziente quasi agonizzante decide di sferrargli il colpo letale.
Oggi la scuola è un organismo quasi cadaverizzato, ma non sarà certo la Gelmini, e tanto meno il super-ministro Tremonti, a farla rinascere, specialmente con interventi di mera amputazione chirurgica. Al massimo potranno far risorgere, dalle ceneri del passato dove è rimasto sepolto per decenni, la figura (obsoleta) del “maestro unico”.
Un anacronismo storico e metodologico-educativo che continua a sopravvivere nell’odierna società, malgrado l’abrogazione legislativa e il superamento da parte delle più aggiornate ed avanzate teorie nel campo psico-pedagogico e didattico.
Il “maestro unico” ha continuato ad esistere attraverso la televisione-spazzatura, nell’impero globale delle merci e dei consumi, nel pensiero unico dell’ideologia edonistica e consumistica trasmessa dalla pubblicità commerciale, nell’omologazione e nell’appiattimento culturale imposto alle giovani generazioni degli ultimi anni dal “Grande Fratello” televisivo, un potere economico-ideologico asceso stabilmente al governo della nazione. Un dominio totalitario che include ed oltrepassa il fenomeno del berlusconismo, avendolo assimilato ed inglobato nella propria sfera di influenza.
Il pensiero unico, oggi dominante, si è dunque diffuso in modo subdolo e capzioso, come un virus pernicioso ed insidioso, frutto di un crescente degrado culturale della società italiana (ed occidentale in genere), un degrado antropologico di cui il berlusconismo è solo uno degli effetti (il più evidente e clamoroso, forse) ma non la causa.
Le radici storiche di tale degrado affondano in un’epoca relativamente recente.
Le origini del degrado vanno ricercate più indietro nel tempo rispetto all’avvento di Berlusconi e dei suoi network televisivi privati. Vanno indagate in quella fase storica di transizione che sono stati gli anni ’60, gli anni del “boom” economico-consumistico, gli anni della scolarizzazione e dell’acculturazione (e dell’omologazione) di massa.
Anni intensi e convulsi, segnati da grandi mutamenti socio-culturali, economici e strutturali, anni in cui il “Potere occulto” del mercato e dei falsi bisogni indotti, di cui parlava Pier Paolo Pasolini nei suoi “Scritti corsari”, si imponeva in modo profondo e duraturo, quasi definitivo, affossando la millenaria cultura contadina, una cultura statica ed immobile, in cui era rimasto chiuso ed immerso gran parte del popolo italiano.
Oggi questo degrado è come un’affezione tumorale causata da una contaminazione originaria risalente a diversi anni addietro, ma che esplode improvvisamente, degenerando in una metastasi cancerosa irreversibile e conducendo irrimediabilmente allo stadio terminale. L’ultimo stadio della società tardo-capitalista.
Lucio Garofalo