Il marketing delle malattie – Come creare malattie e malati
Negli ultimi anni sono proliferati gli operatori del marketing che utilizzano la sensibilizzazione ai problemi sanitari come uno strumento potente per vendere farmaci.
Sono aumentate a dismisura anche le pubblicità dei farmaci. Ad ogni ora del giorno vengono trasmessi spot per incrementare le vendite di prodotti farmaceutici contro il mal di testa, mal di schiena, mal di gola, raffreddore, ecc.
Per rendere più accattivante il messaggio pubblicitario, le aziende farmaceutiche talvolta utilizzano i camici bianchi o, nelle campagne promozionali, anche personaggi noti, che diventano testimoni del “vissuto di malattia”.
Ciò tende a suscitare fiducia, che poi viene ad essere fiducia nel farmaco. Talvolta vengono organizzate vere e proprie campagne di promozione di alcuni farmaci.
Il fenomeno è stato definito “commercio di malattie” (disease mongering), e consiste nella diffusione di informazioni riguardo a malattie o a presunte malattie, con lo scopo di vendere farmaci. Si tratta di promozione commerciale camuffata da campagna d’informazione sanitaria. Sempre più spesso queste campagne sono organizzate e finanziate direttamente dalle industrie chimico-farmaceutiche.
La portata del fenomeno è assai più ampia di quanto si possa credere. Si tratta di diffondere ansia e timori rispetto alla salute, e poi di proporre l’acquisto del farmaco come un risolutore del problema.
Alcune delle “malattie” propagandate sono la depressione, l’Adhd, il mal di testa e i disturbi dell’alimentazione. Le campagne del “commercio delle malattie” non mirano a far comprendere davvero le radici del problema, ma a vendere farmaci.
Oggi il settore farmaceutico rappresenta uno dei settori di maggiore profitto per le industrie, e proprio grazie alla pubblicità e ad altre iniziative di marketing, il mercato si sta espandendo notevolmente.
Si tratta di un mercato che vuole continuare ad estendersi e ad imporsi, anche a discapito della salute umana. Spiega Roberto Satolli, presidente di Zadig (agenzia di giornalismo scientifico):
“Tutti gli attori in gioco hanno interessi solidali: gli specialisti, che possono aumentare i pazienti e di conseguenza il reddito… gli amministratori dei centri di diagnosi o di cura, che reclutano un maggior numero di assistiti e fatturano un maggior volume di prestazioni; i produttori di apparecchiature diagnostiche… non ultime le case farmaceutiche, che… agiscono come il vero motore di tutta la catena… in realtà a ben scavare, nascosto dietro il paravento di una società di pubbliche relazioni, si trova spesso il finanziamento di una o più aziende, soprattutto farmaceutiche. E lo scopo è quasi sempre lo stesso: amplificare l’importanza (per la gravità, diffusione, implicazioni economiche e sociali eccetera) di questa o quella malattia per assoldare pazienti, moltiplicare le prestazioni, potenziare le strutture, sviluppare l’attività… vale la pena di sezionare e smontare il meccanismo, per analizzarlo in tutti i suoi dettagli, al fine di difendersi meglio dalle pericolose distorsioni che può produrre sulla vita e sulla salute delle persone e della popolazione”.(1)
Addirittura, data la mole degli affari e il livello ormai altissimo di mistificazione, c’è chi si chiede se venga prima prodotto il farmaco e poi inventata e “divulgata” la malattia. Il “lavoro” dovrà consistere nel rendere patologico ogni sintomo o piccolo problema, per convincere ad usare tutta una serie di farmaci. In altre parole, si tratta del “disease mongering”, ovvero delle tecniche per accrescere il numero delle persone che si sentono malate, al fine di vendere più farmaci. Spiega la rivista “PLoS Medicine”:
“Sotto l’etichetta di disease mongering vengono raggruppate tutte quelle strategie che puntano ad aumentare il numero di malati e di malattie con il solo scopo di allargare il mercato della salute. Anche se di questa pratica scorretta sono accusate principalmente le multinazionali del farmaco, tecniche analoghe possono essere messe in atto, per esempio, dagli specialisti, quando rivolgono improvvisamente la loro attenzione a particolari patologie, fino a quel momento “sottovalutate”. Sono tante le tecniche a disposizione di un aspirante disease monger per creare più pazienti: trasformare uno stato da fisiologico a patologico (come nel caso della menopausa); inventare di sana pianta una sindrome, definendola in maniera ambigua (disfunzione sessuale femminile); cambiare la definizione di una patologia, esagerandone l’incidenza e sfumando volutamente la differenza tra casi gravi – da trattare con farmaci – e quelli più lievi che non necessitano di cure (Adhd); abbassare le soglie di riferimento sopra le quali sono consigliate terapie farmacologiche (livelli di colesterolo, pressione arteriosa); sponsorizzare un’associazione di pazienti per lanciare una campagna di sensibilizzazione su una malattia etichettata come “trascurata”.(2)
Ovviamente, ai gruppi farmaceutici non interessa la salute delle persone, anzi, più malati ci sono e più guadagnano, dunque interessa molto di più che le persone si sentano malate e, soprattutto, che credano di risolvere i propri problemi attraverso i farmaci. Le società farmaceutiche sono ormai diventate esperte nell’organizzare campagne “pro-malattia”, in cui assoldano “esperti” o persone che si presumono guarite dalle loro medicine. Per promuovere la malattia usano diversi mezzi: le riviste scientifiche e non, le associazioni, i medici, gli sponsor di vario tipo, ecc. Lo scopo è quello di convincere che è opportuno utilizzare i farmaci per ogni minimo disturbo.
La rivista “Pharmaceutical Marketing” ha spiegato in una “guida pratica all’educazione medica” come si debba creare il bisogno di cura prima di produrre il farmaco. A tale scopo occorre attivare scienziati di spicco, che durante i congressi parlino della “malattia”, della diagnosi e della cura.
Altre tecniche sono state spiegate da Philippe Pignarre, che per molti anni ha lavorato nell’industria farmaceutica. Egli sostiene che il settore farmaceutico è il “gioiello della corona del capitalismo” e che per mantenere alti i profitti si è disposti a tutto. Pignarre spiega alcune strategie impiegate di sovente: “si pubblica uno stesso
articolo, sotto firme diverse, per aumentare la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai medici che i suoi vantaggi sono stati davvero confermati; poi la si può addirittura commercializzare sotto due nomi diversi per imporla più rapidamente (strategia detta di co-marketing); infine si fa pressione per farla prescrivere in prima battuta, ecc.
C’è anche la ‘strategia di nicchia’: i laboratori propongono il loro medicinale nel sottodominio limitato di una patologia e in seguito ‘lavorano per allargare questa nicchia, preparando i medici al depistaggio e sensibilizzando sia la stampa che il grande pubblico. Si sono così visti nascere alcune ‘nuove’ turbe psichiatriche’, come certe forme di depressione breve o di schizofrenia precoce… Davanti alla difficoltà di trovare nuovi medicinali, i laboratori si accingono dunque a inventare nuovi pazienti per vendere i loro vecchi prodotti. A questo fine, essi ricorrono a tutti gli stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si indirizzano direttamente alle masse per il tramite dei media”.(3) In una società in cui si semina paura, insicurezza e complessi estetici non è difficilissimo convincere qualcuno che c’è qualcosa che non va nel proprio organismo, e che dunque c’è bisogno di assumere farmaci.
Lo scrittore Ray Moynihan e il ricercatore Alan Cassels hanno scritto un libro dal titolo “Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti” (Ed. Nuovi Mondi Media, 2005), in cui raccontano dell’intento delle società farmaceutiche, espresso dal direttore generale della Merck, Henry Gadsen, di “creare farmaci per le persone sane, così da poter vendere proprio a tutti”.
Altri studiosi, come H. Gilbert Welch, autore del libro “Should I Be Tested for Cancer? Maybe Not and Here’s Why” (“Devo fare un controllo per sapere se ho un cancro ? Forse no, ed ecco perché”), parlano di “epidemia di diagnosi”, ovvero la smania di fare analisi e di capire se abbiamo qualche malattia. Si tratta di un’epidemia che coinvolgerebbe anche persone perfettamente sane o con disturbi che non richiederebbero alcuna cura farmacologica.
Il marketing delle malattie punta a renderci tutti malati, e a farci ritenere che la scienza possa risolvere anche gli scompensi psicologici che lo stesso ambiente mediatico ci spinge ad avere. Tale mercato tende ad ingigantire i problemi e a dare stime molto alte della loro diffusione (le cifre crescono di anno in anno), per far credere che facilmente si possa essere colpiti. La fonte da cui proviene l’informazione viene spacciata sempre per autorevole e “scientifica”, per rendere l’informazione più persuasiva.
Tuttavia, spesso i dati forniti e altri messaggi promozionali sulla malattia sono incontrollabili, perché non viene indicata precisamente la fonte. Il più delle volte si tratta di cifre approssimative o addirittura inventate. Gli sponsor delle campagne di marketing delle malattie tendono a nascondersi, per far apparire che l’informazione possa essere obiettiva in quanto non motivata da interessi economici. In molte campagne promozionali dei farmaci, gli sponsor (le case farmaceutiche) raggiungono i loro obiettivi grazie a programmi televisivi in cui l’informazione appare come dovuta a motivi di tutela sanitaria. Vengono utilizzati professionisti di marketing di alto livello, per rendere le campagne promozionali efficaci, e camuffare un’iniziativa di natura commerciale in uno spazio dedicato al bene comune.
Nel 2002, il British Medical Journal, a proposito del “commercio di malattie”, scriveva che “si possono fare molti soldi dicendo ai sani che sono malati”.(4)
Come osserva Satolli, l’apparato del marketing delle malattie è pronto a fornirci le sue soluzioni: “La conclusione è in genere semplice, anzi semplicistica. Dopo aver ingigandito i rischi… si lancia in conclusione un messaggio rassicurante: niente paura, c’è qualcosa (un farmaco, un intervento, una cura) che risolve tutto senza difficoltà. A questo punto la comunicazione assume quasi invariabilmente una struttura retorica che si richiama alla funzione teatrale del “deus ex machina”, cioè dell’intervento finale risolutore in chiave quasi miracolistica. Anzi si può dire che sia questa la struttura argomentativa tipica dei messaggi promozionali, nei quali l’informazione più importante (cioè quella che sta più a cuore a chi parla) anziché essere anticipata all’inizio, come nell’esposizione giornalistica, arriva spesso solo alla fine di un percorso che svolge la funzione di preparare all’apoteosi. Questo aspetto è talmente tipico, che può essere “patognomonico”: quando si ha il dubbio che un messaggio abbia finalità promozionali, si può saltare in fondo: se nelle ultime righe è citato un farmaco risolutivo, probabilmente il sospetto è fondato”.(5)
Nel settore della produzione dei farmaci, soltanto sei corporation (Bayer, Glaxo, Pfizer, Aventis, Novartis e Roche) controllano il 70% dell’intero mercato mondiale, controllando anche la ricerca scientifica. I cartelli farmaceutici hanno oggi un notevole potere di creare farmaci e di metterli in commercio senza accertarne i rischi per la salute di chi li assumerà. Gli effetti collaterali sono spesso talmente pesanti da generare vere e proprie patologie o da compromettere gravemente la salute del paziente.
L’industria del farmaco deve di tanto in tanto lanciare nuovi farmaci o sostituire quelli che sono stati identificati come gravemente nocivi. Per vendere i nuovi farmaci, deve suscitare nuovamente fiducia, e ha bisogno di sollevare un notevole battage mediatico. Un mezzo efficace è quello di utilizzare le riviste più autorevoli del settore scientifico. I lettori di queste riviste credono che gli articoli siano “obiettivi” e invece sempre più spesso sono sponsorizzati dalle case farmaceutiche allo scopo di sostenere un nuovo prodotto che metteranno presto in commercio.
Il Direttore Generale di United Health Europe, Richard Smith, in un discorso fatto presso la Medical Society di Londra nell’ottobre del 2004, spiegò il meccanismo di propaganda delle industrie farmaceutiche attraverso le riviste scientifiche:
“Le pubblicità possono essere spesso ingannevoli e i profitti nell’ordine dei milioni, ma le pubblicità stanno lì in bella vista, sotto gli occhi della critica… Il vero problema, ben più importante, ha a che fare con gli studi originali, in particolare i test clinici, pubblicati dalle riviste. Ben lungi dal far loro la tara, i lettori considerano i test controllati a distribuzione casuale come una delle più alte forme di evidenza. Un test su vasta scala pubblicato su una delle maggiori riviste possiede il marchio d’approvazione della rivista (a differenza della pubblicità), sarà distribuito in tutto il mondo e può ben ricevere una copertura globale dai media, specialmente se promosso allo stesso tempo dai lanci di stampa sia della rivista sia della costosa società di pubbliche relazioni, assoldata dalla compagnia farmaceutica che ha sponsorizzato lo studio. Per un’industria farmaceutica, un test dall’esito favorevole vale quanto migliaia di pagine di pubblicità, ragion per cui una compagnia arriva a spendere talvolta oltre un milione di dollari in ristampe dello studio da distribuire in tutto il mondo. I medici che ricevono le ristampe possono non leggerle, ma rimarranno impressionati dal nome della rivista sulla quale compaiono. La qualità della rivista consacrerà la qualità del farmaco… C’è una forte evidenza che le compagnie stiano ottenendo i risultati che vogliono, e ciò è tanto più preoccupante perché dai due terzi ai tre quarti degli studi pubblicati sulle maggiori riviste – Annals of Internal Medicine, JAMA, Lancet e New England Journal of Medicine – sono finanziati dall’industria … sono disponibili varie strategie di pubblicazione per assicurare la massima esposizione di risultati positivi. Alcune compagnie sono ricorse al tentativo di sopprimere gli studi negativi, ma si tratta di una strategia rozza, che tra l’altro dovrebbe essere ben raramente necessaria se la compagnia sta ponendo le “giuste” domande. Una strategia di gran lunga migliore consiste nel pubblicare i risultati positivi più di una volta, spesso in supplementi alle riviste, che sono altamente vantaggiosi per gli editori e si sono mostrati di dubbia qualità… E’ inoltre possibile combinare i risultati provenienti da differenti centri in molteplici combinazioni. Queste strategie sono state smascherate nei casi del Risperidone e dell’Odansetron, ma è un lavoro immenso cercare di scoprire quanti test sono davvero indipendenti e quanti, invece, sono semplicemente lo stesso risultato che viene pubblicato più e più volte.”(6)
La fiducia acritica nella scienza e nella farmacologia è dovuta soprattutto alla propaganda mediatica che ogni persona subisce, e al prestigio di cui sono ammantati gli ambienti della scienza ufficiale. Eppure i fatti concreti rivelano che sia la farmacologia che la medicina ufficiale possono provocare malattie e morte. Oggi sarebbero circa 90 i morti al giorno in Italia per errori medici, per effetti collaterali dei farmaci o per malattie prese negli ospedali. Soltanto nel nostro paese dunque morirebbero almeno 30.000 persone all’anno a causa della medicina e di altri fattori correlati.
Peraltro, i cartelli farmaceutici sono oggi strettamente collegati alle maggiori aziende alimentari, come la Kellogg e la Nestlé. Tali società portano avanti ricerche sugli additivi alimentari, sui conservanti, sui coloranti o sugli “aromi”. Negli ultimi decenni è aumentato considerevolmente sia l’uso di psicofarmaci, sia il fenomeno della sofisticazione alimentare, senza che le autorità abbiano mai sollevato il problema, nonostante le conseguenze drammatiche. Nessun cittadino viene mai avvertito dalle autorità circa i rischi che può correre assumendo un determinato psicofarmaco o consumando alimenti adulterati. Dunque, le nostre autorità rivelano anche in questo modo di essere sottomesse al potere del gruppo che controlla l’industria alimentare e farmaceutica, e di non avere alcun riguardo per la salute delle persone.
Lo scrittore Ray Moynihan e il ricercatore Alan Cassels hanno scritto un libro dal titolo “Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti” (Ed. Nuovi Mondi Media, 2005), in cui raccontano dell’intento delle società farmaceutiche, espresso dal direttore generale della Merck, Henry Gadsen, di “creare farmaci per le persone sane, così da poter vendere proprio a tutti”.
Altri studiosi, come H.Gilbert Welch, autore del libro “Should I Be Tested for Cancer? Maybe Not and Here’s Why” (“Devo fare un controllo per sapere se ho un cancro ? Forse no, ed ecco perché”), parlano di “epidemia di diagnosi”, ovvero la smania di fare analisi e di capire se abbiamo qualche malattia. Si tratta di un’epidemia che coinvolgerebbe anche persone perfettamente sane o con disturbi che non richiederebbero alcuna cura farmacologica.
Per fare in modo che ogni disturbo abbia la corrispettiva cura, si fa in modo da etichettare come malattie anche piccoli disturbi, sintomi passeggeri o comportamenti. Tutto questo viene reso realistico attraverso statistiche e ricerche false o fittizie. In tal modo nascono cure farmaceutiche per la “timidezza”, le gambe stanche, la “fobia sociale” o la distrazione.
Anche la tristezza temporanea, magari per un lutto o un divorzio, può diventare una malattia curabile con psicofarmaci. Entrare in uno studio medico significa quasi sempre ricevere cure farmacologiche, anche quando varrebbe la pena chiedersi se il disturbo dipenda da insane abitudini alimentari o da altre cause non patologiche e facilmente evitabili.
Tutti sanno che i farmaci possono creare effetti collaterali, e dunque sarebbe meglio non assumerne se non c’è un’effettiva necessità. Assumerli quando si è sani, soltanto perché attraverso tecniche mediatiche ci hanno convinto che non lo si è risulta un paradosso che mostra tristemente il livello di potere che l’attuale sistema ha raggiunto sulle singole persone. E’ come se l’attuale gruppo al potere provasse piacere nell’avere la possibilità di constatare quanto gli individui siano diventati condizionabili.
Come scrisse Ivan Illich, “la civiltà industriale crea nuove malattie e il sistema medico stesso è ben lungi dall’essere sano: Una struttura sociale e politica distruttiva trova il suo alibi nel potere di appagare le proprie vittime con terapie che esse hanno imparato a desiderare. Il consumatore di cure diviene impotente a guarirsi o a guarire chi gli sta vicino”.
Antonella Randazzo
Fonte: http://antonellarandazzo.blogspot.com/
Articolo originale
24.09.08
NOTE
1) Latronico Nicola, Rasulo Frank, Candiani Andrea, “Brain. Brescia Anesthesia Intensive Care Neuroscience”, Madeia, Napoli 2006, p. 155.
2) “PLoS Medicine”, volume 3, numero 4, aprile 2006.
3) Gruppo Marcuse, “Miseria umana della pubblicità: il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo”, Eleuthera, Milano 2006.
4) Latronico Nicola, Rasulo Frank, Candiani Andrea, op. cit., p. 157.
5) Latronico Nicola, Rasulo Frank, Candiani Andrea, op. cit., p. 158.
6) Brani tratti dal discorso che Richard Smith pronunciò presso la Medical Society di Londra nell’ottobre 2004. Il discorso fu riportato nel gennaio 2005 dal bollettino di HealthWatch.