I privilegi e gli sprechi del Parlamento poggiano sull’assenza di trasparenza
Perché non si possono scalfire i privilegi dei Palazzi? Perché lo spreco delle risorse pubbliche non può essere fermato? Perché si spendono tanti soldi per fare funzionare le istituzioni?
La politica costa molto, rispondono alcuni. E costa molto perché i partiti hanno bisogni sempre più dispendiosi, le campagne elettorali costano un occhio e le segreterie dei singoli parlamentari o candidati alleggeriscono il portafogli.
Solo questo? La vita di un parlamentare costa molto, perché le esigenze di un parlamentare sono molte, ben maggiori di quelle di un comune mortale.
Non c’è un freno, dunque? Non ci sono ostacoli? Non ci sono strumenti da mettere in campo per tagliare il superfluo?
Se ne vanno un sacco di soldi per i rimborsi elettorali, per far campare i partiti, per finanziare le attività dei gruppi parlamentari attraverso essi, l’attività dei partiti.
Ci vogliono un sacco di soldi per pagare le pensioni d’oro elargite a piene mani a parlamentari dopo pochi anni di permanenza nelle assemblee legislative. E quando la legislatura si chiude anzitempo, i costi si raddoppiano invece che dimezzarsi. E’ un sistema infernale che regge perché quando si arriva ai soldi non ci sono contrasti furibondi.
Anche i più radicali oppositori s’arenano sulla spiaggia delle… compensazioni.
E c’è chi lo fa perché non può fare altrimenti, c’è chi ritiene che sarebbe da stupidi rinunciarvi. Lo fecero anni fa i radicali, in verità, ma la cosa non ebbe seguito.
Ma tutto questo meccanismo potrebbe crollare, comunque essere scosso se si sapesse qualcosa di come lavorano e decidono i parlamentari. L’architrave su cui poggia il privilegio è l’inaccessibilità degli atti, dei documenti delle amministrazioni delle assemblee legislative.
L’Assemblea regionale siciliana fa scuola, dopo 18 anni dall’entrata in vigore di una legge che l’obbliga a regolare l’accesso, ha approvato una Carta del diritto d’accesso che rende difficile la conoscenza degli atti.
Fino al 1968 non sussisteva alcuna normativa che regolamentasse l’accesso ai documenti formati o detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni.
Solo con la Legge 15 del 1968, si tentò di delineare un diritto di accesso del cittadino ai documenti detenuti dalle Amministrazioni pubbliche, all’autocertificazione di stati o fatti, e larvatamente, un diritto alla partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo.
La normativa era alquanto generica e non regolamentava i molteplici aspetti dell’esercizio dei singoli istituti: di fatto non produsse significativi effetti pratici.
Ma il principio dell’accessibilità veniva affermato e per la prima volta, si riconosceva l’esistenza in capo al cittadino, di un vero diritto soggettivo alla conoscenza ed all’estrazione di copia degli atti amministrativi, precedentemente sconosciuto al sistema giuridico italiano.
In realtà si dovrà attendere fino al 1990, perché la legge n° 241 renda effettivamente fruibile questo diritto e delinei il nuovo principio di trasparenza dell’attività delle pubbliche amministrazioni, ed il diritto dei cittadini a partecipare al procedimento amministrativo, nei casi previsti dalla Legge, fino ad allora solamente teorizzato dalla dottrina (Sandulli, Giannini).
Con la Legge 241/90, finalmente viene enucleata una disciplina organica per regolamentare l’accesso dei cittadini agli atti e ai documenti amministrativi ed il “nuovo” diritto alla partecipazione al procedimento.
Il principio della massima accessibilità formale e sostanziale dei documenti, viene affermato con forza ed ispira tutto il contenuto di una legge fortemente innovativa che finalmente pone il cittadino su un piano di parità con la P.A., fino ad allora estranea, se non reticente, ad un comportamento di collaborazione leale ed equanime col cittadino utente.
La stessa legge ha posto alcune limitazioni al diritto di accesso, che attengono alla riservatezza di alcuni atti, la cui conoscibilità porterebbe pregiudizio all’attività della P.A., alla sua imparzialità, ovvero a diritti di terzi.
Restano infatti esclusi da ogni forma di accesso, un nucleo di documenti relativi ad una serie di attività alquanto eterogenee delle Amministrazioni, per la quali la non accessibilità ha motivazioni di varia natura.
Il comune denominatore di queste riserve è dato dalla circostanza che altri “interessi” giuridicamente o istituzionalmente rilevanti, necessitano di una tutela preminente rispetto al principio di trasparenza. Si pensi ai documenti coperti da segreto di Stato.
La legge 241 del 1990, ha previsto inoltre che ogni Amministrazione pubblica possa dotarsi di un proprio Regolamento che soddisfi esigenze specifiche, all’interno e nel rispetto del quadro normativo generale.
I principi espressi dalla Legge 241 in tema di accesso, trasparenza e partecipazione del cittadino all’attività della P.A., sono stati di recente coordinati, col Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, che ha introdotto alcune limitazioni al diritto di accesso, legate alla tutela della privacy e al trattamento dei dati personali.
Finalmente, dopo diciotto anni, l’Assemblea Regionale Siciliana ha sentito l’esigenza di dotarsi di un Regolamento per l’accesso dei cittadini ai propri documenti amministrativi.
Il Regolamento adottato ripete, nella parte generale, i concetti gia espressi dalla legge 241/90 in tema di accesso e trasparenza dell’attività amministrativa.
Ma ad un esame più attento, si riscontrano alcune differenze di carattere tecnico, formale e sostanziale, relative alle modalità di accesso ed all’estensione del diritto.
Prima notevole differenza procedurale è la mancanza di un registro delle richieste di accesso, espressamente previsto dalla normativa e l’omissione della possibilità di accesso con richiesta verbale, che diventa formale nel momento in cui viene trascritta nel registro di cui sopra.
Dal punto di vista sostanziale il regolamento non sembra in realtà ispirato al principio di massima accessibilità, anzi le limitazioni previste superano in estensione e profondità, quelle delineate nella legge di riferimento.
L’impressione che si ha scorrendo il regolamento è che l’ARS più che definire le modalità di accesso, abbia voluto in qualche modo limitare questo diritto dei cittadini.
Infatti, la Legge 241 ha delineato un principio di collaborazione “leale” tra Amministrazione e cittadino.
L’affermazione che “Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando l’Assemblea Regionale Siciliana ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede l’accesso”, non sembra coerente a questo principio ispiratore della Legge. Anzi.
Alquanto bizzarra la precisazione che l’accesso può essere esercitato verso i documenti “detenuti dall’Assemblea Regionale Siciliana e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”, laddove sembra delinearsi la sussistenza , in contrapposizione, di un’attività “non di pubblico interesse”, che dobbiamo e vogliamo escludere.
A tratti appare netta la volontà di limitare, piuttosto che di ampliare quanto più possibile, il diritto di accesso, arrivando persino a mutuare, caso alquanto raro tra le pubbliche Amministrazioni, il principio di sospensione dell’attività giurisdizionale ed i relativi termini.
Infatti il Regolamento prevede all’art. 9, che: ”I termini relativi agli obblighi dell’Amministrazione, di cui al presente Regolamento, sono sospesi di diritto nei periodi di sospensione estiva e di fine anno dei lavori dell’Assemblea Regionale Siciliana”.
L’”errore” in cui è incorsa l’ARS, invero presente in diversi punti del Regolamento, è chiaro: si è ritenuto che il diritto di accesso debba sottostare ai tempi “politici” dell’Organo Legislativo. Ma in ambito di accesso ai documenti amministrativi, l’ARS non agisce come Organo legislativo, bensì come Amministrazione in senso stretto, si è dunque confusa l’attività dell’Organo Legislativo, le sue prerogative ed i suoi tempi di funzionamento, con un’attività che ha natura giuridica completamente diversa.
Una vera eclisse della ragione giuridica.
Non si comprende infatti la previsione della sospensione dei termini dell’accesso in relazione alla pausa “estiva e di fine anno”, concetti del tutto imprecisi, imprevedibili e irrilevanti, che nulla hanno a che vedere con l’attività amministrativa dell’ARS che, in qualità di “Amministrazione” non “chiude” mai.
Si confondono in modo irrazionale i tempi dell’attività legislativa, le sue legittime esigenze, con l’immanenza della funzione amministrativa. Un minestrone politico, amministrativo e gestionale, dal sapore equivoco.
Risulta evidente che l’ARS coma Amministrazione non ha periodi di “chiusura estiva o di fine anno”, come quelli di una salumeria: questi momenti di sospensione sono connaturati a esigenze diverse, proprie della funzione legislativa, ed estranee a quella amministrativa. Se questo principio avesse un minimo valore, il diritto all’accesso dovrebbe essere limitato anche nel periodo della campagna elettorale.
Non si rilevano neanche motivi tecnici e operativi, perché impiegati, funzionari e dirigenti dell’ARS vengono retribuiti tutti i mesi, tutto l’anno.
L’articolo 9, appare sostanzialmente illegittimo, oltre che oggettivamente incomprensibile: sicuramente fuori dallo “spirito” della Legge 241/90.
Il motivo risiede nella referenza e deferenza dell’Amministrazione nei confronti del livello decisionale politico, assente giustificato per ferie?
L’Amministrazione in quanto tale non è capace di camminare sulle proprie gambe, di auto gestirsi?
Altrettanto dubbia è la legittimità, se non l’opportunità, della previsione che l’accesso venga escluso: “Nei confronti dell’attività dell’Amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione”.
L’enunciazione è troppo generica e lascia spazi di discrezionalità troppo ampi all’Amministrazione. Inoltre è possibile che documenti posti a base di provvedimenti aventi tali caratteristiche, possano assumere rilievo nella tutela di diritti ed interessi legittimi: la loro qualità di atti propedeutici e strumentali alla potestà legislativa o di alta amministrazione o ancor più di programmazione e pianificazione, non esclude il nesso di causalità tra detti documenti e situazioni giuridicamente protette, di cui sono titolari privati cittadini o altri soggetti.
Uguale considerazione è possibile esprimere in merito all’esclusione della: ”documentazione … concernente l’istruzione dei ricorsi amministrativi prodotti dal personale dipendente” e di quella in merito alle “Relazioni sull’attività di consigli, comitati, commissioni, gruppi di studio e/o di lavoro”, che non appaiono potersi escludere in via generale dall’accesso.
Incoerente e contraria ai principi ispiratori della Legge, la previsione del “silenzio rifiuto” secondo il quale: “Il procedimento deve concludersi nel termine di trenta giorni dalla data di ricevimento della richiesta, trascorsi i quali essa si intende respinta”.
In linea di principio, la Legge 241, non prevede ipotesi di silenzio rifiuto, quali regola, anzi il suo coacervo delinea un obbligo in capo all’Amministrazione, di corrispondere esplicitamente, anche in modo negativo, alla richiesta del cittadino, motivando il rifiuto, coerentemente al principio di lealtà e parità dei soggetti dell’attività di pubblico interesse: il cittadino e l’Amministratore.
Il “silenzio rifiuto” limita di fatto l’azione del cittadino, che non conoscendo i motivi sostanziali per i quali gli è stato negato l’accesso, non potrà far altro che impugnare il “silenzio” presso gli Organi competenti, e solo in corso di trattazione, verrà a conoscenza delle motivazioni che hanno indotto l’Amministrazione a rifiutare l’accesso, anzi a non rispondergli proprio.
Netta la sensazione finale che l’Ars abbia timore di fare conoscere i documenti e gli atti amministrativi, mostrando insicurezza sulla piena legittimità della propria azione amministrativa legata alle decisioni politiche.
Una puntuale legittimità degli atti, probabilmente, avrebbe reso più difficile decisioni, azioni, comportamenti ed atteggiamenti – politici e non – assai dubbi sia sul piano amministrativo quanto su quello politico. La casta, insomma, sembra difendersi con i denti, sfornando regole che attenuano, talvolta negano, diritti altrove acquisiti da decenni.