L’IMMAGINAZIONE: I MARGINI DI UN RITORNO CONSUETO
Bruxelles, 5 Ottobre 1999
Sovrasta l’aria e giunge veloce dai confini della
memoria, nell’estate che ormai si è fermata nell’aria,
l’immaginazione. Non conosce barriere né esitazioni,
sfiora il reale fino a confonderlo nella ricerca dei
nomi e delle situazioni, continua ad infiltrarsi tra
le pieghe del ricordo, allontana il tempo, reagisce al
silenzio, impone l’importanza del richiamo e confonde
la mente senza suscitare passione nella ricerca
sottile che smette l’ansia e il tremore dell’età, però
sfiora le ore, passa e trascende l’evidenza, nascosta
tra gli obblighi della ragione, l’immaginazione.
Nella riflessione lieve accarezza il giorno e nella
contraddizione della coscienza discute l’essere e
richiama alla mente la realtà ormai passata
nell’impronta incompiuta dell’ultimo sogno che precede
il risveglio della partenza (quello dell’alba).
Sfilano le sensazioni, corre il ricordo sulla nuvola
dell’incoscienza abbandonata dalla realtà che alla
fine può solo rimodellare il sogno ma distruggere così
l’immaginazione.
Accantonati i progetti di favolosi viaggi esotici,
proprio per sconfessare chi ancora pensa che non si è
poi nessuno se non si riesce a raccontare a tavolate
di annoiati amici storie di viaggi supersonici e di
avventure transcontinentali, ritorniamo alle nostre
origini, nei luoghi consueti della memoria, per
rifocillare il ricordo e ritrovare linfa vitale che
alimenti le nostre radici, ormai confuse nelle nebbie
e negli affanni di quelle terre del nord dove un
destino, senza aggettivi, ci ha proposto di vivere.
Aspettiamo l’estate per intraprendere i riti del
ritorno, metafora ormai della nostra stessa esistenza,
come delirio e immaginazione. E la nostra terra si
apre in un abbraccio “ ffruntatu ”, pudica nel
mostrarci le sue ferite: cemento, caos, abbandono.
Abbiamo compreso subito quel suo disagio: le colline
abbandonate dagli alberi, il disordine, il cemento,
come pure, oggi, faraoniche costruzioni di improbabili
metropolitane, perché ci sembra opportuno che città
come Messina o come Catania, debbano sconvolgere le
loro strade, divellere il lastricato lavico per
allinearsi agli standard delle grandi metropoli
europee. E nella logica di questo adeguamento ben
venga di tutto: se il cemento ci seppellirà, sarà il
retaggio che avremo pagato al progresso; se i luoghi
della memoria di una città verranno cancellati dalle
ruspe, sarà il prezzo che avremo pagato
all’appiattimento, all’assimilazione delle culture e
delle consuetudini.
Laddove sorgevano luoghi sacri, come quella Libreria
dell’Ospe a Messina, frequentata da Quasimodo,
Pugliatti, Consolo, Migneco, Piccolo e Saitta, tra gli
altri, vera oasi di cultura, sorge oggi un caffè,
ritrovo di confusione e di schiamazzo senza che nessun
sedicente assessore alla cultura della città abbia mai
proposto di recuperare quel sito, come luogo della
memoria che caratterizzerebbe finalmente una città
divenuta senz’anima.
Così il mare non rimanda più
lievi brezze ristoratrici nelle serate di agosto, né
platani ed eucalipti offrono più, all’incauto
passante, riparo dal sole. I lidi, dove ci sono, sono
invasi da nuove barbarie di plastica e similpelle.
Le
aree di verde attrezzato, ideate per dare refrigerio
agli anziani e permettere i giochi dei bambini, sono
infrequentabili luoghi di degrado, disertati anche da
chi dovrebbe garantirne la sicurezza.
Ma siamo
adeguati agli standard delle città europee, e droga,
delinquenza, maleducazione sono le frange variopinte
del lungo vestito colorato del progresso.
Eppure forse
esiste ancora quella piazza della nostra infanzia dove
abbiamo imparato i suoni ed i colori della vita, e
certamente esisterà ancora tutto il mondo che essa
racchiudeva. L’avremmo ritrovata e vi avremmo
ritrovato un poco di noi stessi, se soltanto avessimo
avuto il tempo, o il coraggio, di cercarla.
Ritorniamo
quindi ai nostri impegni abituali, ritrovando tanti
bisogni e immaginando tante proposte e, alla fine, ci
accomoderemo intorno a quelle tavole di amici e
ascolteremo i loro racconti di viaggio. Certo ci
convinceremo di non essere nessuno perché non abbiamo
conosciuto nuovi mondi ma, socchiudendo gli occhi,
immagineremo la nostra Isola e, dimenticando i tanti
sacrifici e le troppe delusioni, sorrideremo ai nostri
commensali e “fingeremo sgomento” sapendo che non
potranno mai immaginare “qual vento forte ci ha
cercato”…
Eugenio Preta