Asse Parigi-Roma contro l’euro forte
Questo almeno è quanto auspica il Telegraph: con Berlusconi al governo, Sarkozy ha forse trovato un alleato nella sua battaglia contro la politica dissennata della Banca Centrale Europea, che tiene altissimi i tassi primari, provocando la disastrosa iper-valutazione dell’euro (1).
«Un euro così forte danneggia l’economia italiana. Discuterò con Sarkozy un intervento presso la BCE», ha detto il cavaliere. Subito è partita l’acida replica di Jurgen Stark, governatore tedesco della BCE: «Raccomando ai leader politici europei, i neo-eletti e i rieletti, di leggere le leggi europee sulla Banca Centrale».
Si tratta del solito richiamo alla «indipendenza» della BCE. Che lo faccia il banchiere tedesco non è strano: l’euro è di fatto il marco tedesco mascherato, e la Germania, ha sottratto proprio all’Italia e alla Francia forti quote di mercato.
L’Italia, nonostante le paghe più basse d’Europa, dal ’95 ha perso il 40 % in competitività per costo dell’unità di lavoro a favore della Germania. Ciò che l’euro forte sottrae ai tedeschi suio mercati terzi, i tedeschi lo recuperano a spese dei vicini industrialmente più deboli o con costi più alti dell’amministrazione pubblica. Basterebbe questo a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che non c’è una unità europea degna di questo nome.
Oltretutto, la pretesa di indipendenza assoluta della BCE è una falsità, che non si trova nemmeno nei sacri testi eurocratici (che nessuno di noi, va ricordato, ha mai votato): il Trattato di Nizza, all’articolo 111, dà ai governanti eletti, politici, europei, il potere addirittura di porre un cambio fisso per l’euro – all’unanimità – e quello di modulare il tasso di cambio – a maggioranza qualificata.
Si tratta dunque di trovare una maggioranza qualificata per obbligare la BCE a tagliare i tassi. Fino ad oggi, Sarkozy non l’ha trovata. Men che meno in Prodi (ex capo-Kommissar) e in Padoa Schioppa, «inventore» dell’euro a taglia unica, che nell’euro fortissimo vede con gioia l’occasione di «shock asimmetrici» (appunto come quello tra Francia e Germania), i quali dovrebbero portare i governi europei – secondo le speranze sue e del gran pédophile suo padrino – ad implorare un governo assoluto dei burocrati.
Ma oggi, almeno, Berlusconi e Tremonti sono meno «europeisti». E la Lega è ben avvertita, dalla sua base di piccole imprese, che l’euro forte ci strangola. Sono due, non una maggioranza. Ma «la politica è tutto (in realtà) nel sistema monetario europeo, e la rielezione di Berlusconi configura un mutamento nel bilancio di forze politiche», dice al Telegraph Bernard Connolly, economista strategico della Banque AIG: «Molto presto probabilmente la Spagna si unirà a Francia e Italia, così saranno tre grossi paesi dell’eurozona a trovarsi nello stesso campo».
La Spagna è infatti nei guai grossi per lo scoppio della sua bolla edilizia, e sempre per colpa dei tassi della BCE: nel precedente decennio li ha tenuti bassi perchè lo voleva la Germania, e quei tassi al 2% hanno gonfiato la bolla immobiloiare spagnola.
Lo stesso si dica per l’Irlanda, che sui bassi tassi ( e sulle basse imposte sulle imprese) ha costruito un «boom» che adesso diventa un «bust», un precipizio. Tanto più grave in quanto l’economia irlandese è la più esposta verso il dollaro e la sterlina.
«Siamo in una classica recessione da scoppio di bolla», ha detto l’economista Morgan Kelly, dell’University College di Dublino, «e non possiamo fare niente di quel che un paese normalmente farebbe in queste circostanze, perchè siamo dentro l’eurozona. Non possiamo tagliare i tassi d’interesse, non possiamo svalutare, e non abbiamo i mezzi per uno stimolo fiscale».
Le banche irlandesi emettono alla disperata bonds per raccogliere denaro da usare come collaterale agli sportelli della BCE, essendosi prosciugato il mercato dei crediti esteri. Forse dovranno essere nazionalizzate in massa.
Poi ci sono i paesi che ancora non sono nell’euro, ma bussano per entrarvi: devastati dalla fuga di capitali seguita al mega-crack americano. La banca centrale islandese ha dovuto aumentare i tassi primari al 15 % sulla moneta locale, la krona. La Turchia è la seconda in lista per un crollo, insieme agli altri paesi che hanno goduto di (troppo) credito estero rovente: i baltici, la Romania, la Bulgaria, l’Ungheria, la Serbia, tutti con un deficit dei conti correnti eccessivo, mentre sono legati da un tasso fisso con l’euro.
Insomma occorre che qualcuno abbia la forza morale di spegnere il pilota-automatico che guida la BCE (il robot è Trichet) e metta mano al timone, per guidare con sensibilità in una politica monetaria che non può essere uguale per tutti, in questa immensa crisi mondiale.
Certo, ci vorrebbe più chiarezza intellettuale: è in corso uno scontro tra la «dottrina ufficiale» e un pensiero politico-economico tutto da reinventare. Bernanke almeno ha mandato in soffitta le teoria ufficiale quando non fa più comodo, intervenendo pesantemente come stato a favore delle banche rovinatesi da sè, dalla loro stessa deregulation: ha applicato un keynesismo a solo vantaggio degli usurai e degli speculatori, ovviamente senza alcun keyesismo sociale di rincalzo. Nessun aiuto ai disoccupati e a chi perde la casa, nessuna grande opera alla Roosevelt.
In questo vuoto d’alternative, i banchieri – ossia i responsabili del disastro – vengono invocati (in Europa da Gordon Brown) perchè trovino le soluzioni al disastro, mentre dovrebbero essere fucilati sulla pubblica piazza.
Ovviamente i bancarottieri, con i loro complici centrali (Trichet, Draghi) si stanno facendo da soli le «regole», più leggere possibili, che invece dovrebbero essere imposte dai governi per scongiurare i trucchi e le vere truffe che hanno causato il disastro.
Il moralismo di cui s’ammanta la BCE («Lotta all’inflazione», blocco alle spese allegre dei politici eccetera) sta cadendo a pezzi di fronte alla immane realtà del crack mondiale.
Dalle banche criminali colpevoli del crack, «i banchieri centrali si contenano di promesse di migliori comportamenti futuri», scrive Europe 2020 (2).
Sono le promesse di mascalzoni che hanno creato un mercato dei derivati, fuori di ogni controllo, pari a 500 trilioni di dollari: dieci volte il PIL mondiale, dieci volte l’economia reale del mondo. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, almeno 10 di questi trilioni sono spariti, inesigibili.
Dunque «ci sono attualmente sul pianeta circa 10 mila miliardi di dollari in titoli che non hanno che un’esistenza fittizia», scrive il sito francese: attivi-fantasma che in parte hanno rifilato a noi risparmiatori, spesso a nostra insaputa (fondi-pensione, comuni ingolfati dai derivati), ma in parte sono ancora in collo alle banche speculatrici. E siccome nessuno li compra più, essi non hanno alcun valore reale, e trascineranno la banche mondiali nel gorgo, qualunque cosa facciano i banchieri centrali per aiutarle.
Del resto possono far poco: persino il Fondo Monetario – colonna e simbolo del sistema globale finanziario imposto dagli USA – sta vendendo oro, perchè a secco di liquidità.
E a proposito di banche: il Telegraph avvisa che il Credito Valtellinese «è diventata giusto ora la prima banca europea a memoria d’uomo saltare la redenzione di una sua obbligazione redimibile, sollevando allarme su possibili più gravi problemi nel sistema finanziario italiano».
Salvo errori, questa notizia – data con rilievo da Bloomberg (3) e dal Financial Times – non l’ho trovata su 24 Ore nè sull’Ansa. A questo servono i «grandi» media: a celare la verità sulla presunta «buona salute» delle banche italiane, loro proprietarie o inserzioniste.
Cercherò dunque di spiegare con mie parole, certo tecnicamente mal tradotte dall’inglese, perchè questo fatto è gravissimo per tutti noi piccoli depositanti.
Il Credito Valtellinese ha dunque mancato di ripagare ai creditori titoli redimibili (callable bonds) per 150 milioni di euro, con scadenza al 30 aprile, preferendo pagare invece ai suoi creditori, nelle cui mani ha lasciato quei bonds, 160 punti d’interesse in più. I detentori dei bonds ricevono interessi più alti, ma non si vedono restituire il capitale. Lo vedranno mai più?
Ecco il dubbio. Le banche europee nell’ultimo decennio hanno raccolto immense quantità di denaro spacciando questi bonds, note in banca come LT2 e nel gergo come «callable notes», ossia obbligazioni richiamabili, perchè le banche debitrici hanno l’opzione di ripagarle prima della scadenza, a date prefissate.
Gli investitori considerano queste obbligazioni meno rischiose, proprio perchè si aspettano di vedersele ripagare ad una data previa, anzichè aspettare la data di maturazione, più lontana.
In tempi normali, nessun problema: la banca ripaga l’emissione e allo stesso tempo rinnova un’altra emissione di pari importo, che viene subito comprata dal mercato perchè i «callable bonds» sono considerati sicuri. Ce ne sono anzi di «perpetuals», nel senso che non hanno dato di espirazione: vengono rimborsati a date fisse, altrimenti l’investitore riceve interessi più alti (ma non vede più il capitale).
Tutto lo spaccio dei callable bonds si basa sul fatto che le banche optano per il pagamento anticipato a date fisse. E’ questo che li rende negoziabili.
Ma ora il Credito Valtellinese ha rotto i ranghi, per la prima volta a memoria d’uomo, mettendo a rischio anche questo mercato. Perchè?
E’ ovvio: preferisce pagare un interesse di 160 punti-base superiore, perchè comunque è inferiore a quello che dovrebbe pagare per rifinanziare quel suo debito. Con il mercato del credito interbancario alle stelle, diventa più costoso ripagare il debito che pagare la penale. Intanto, il rischio della «estensione» (di due obbligazioni identiche, la più rischiosa è quella a scadenza più lontana) è tutta a carico dei clienti creditori acquirenti del bond.
Le banche europee non hanno finora mai mancato una redenzione, perchè tutto il trucco della sicurezza e negoziabilità dei bond si basa su quello. Ma ora il Valtellinese ha inaugurato una tendenza, che quasi sicuramente troverà imitatori.
Le banche europoidi hanno in scadenza quest’anno 8 miliardi di euro di queste callable notes, e certo non hanno alcuna voglia di raccogliere capitale ad alto costo per ripagarle, in tempi come questi. Pagheranno interessi più alti, ma non il capital che si sono fatti prestare dagli investitori. Probabilmente mai più.
Certo, le banche perdono in reputazione. Quella reputazione che si suppone salvaguardi i risparmiatori: non possono allarmare i detentori di quei bonds saltando una data di redenzione, altrimenti la prossima volta che chiederanno soldi al mercato riceveranno sputi in faccia.
Ma la reputazione delle banche è già a terra, visto che le banche stesse si domandano interessi esosissimi per prestarsi denaro a vicenda, ben conoscendo l’insolvenza virtuale l’una dell’altra.
Quanto a tornare a chiedere soldi sul mercato, sanno perfettamente che non se ne riparlerà per molti, molti anni. Così, tranquillamente, vengono meno ai patti. Con la tacita complicità dei «grandi» media, di Draghi, della Banca Centrale Europea.
Ci saranno politici abbastanza coraggiosi da strappare il comando a questi mascalzoni in completo scuro?
Maurizio Blondet
16 aprile 2008
Link a questo articolo :
www.effedieffe.com/content/view/2884
1) Ambrose Evans-Pritchard, «Berlusconi plans Paris-Rome axis to
humble European Central Bank», Telegraph, 16 aprile 2008.
2) «Epargnants et investisseurs piégés par 10.000 milliards USD
d’actif fantomes», Europe 2020, 15 aprile 2008.
3) Mark Gilbert, «Another Flavor of Bonds Threatens to Turn Sour»,
Bloomberg, 10 aprile 2008.