La perdita di un’ultima fede (nel debito)
Da ottobre, le Borse mondiali hanno perso 7,7 trilioni di dollari: lo rivela un rapporto della Bank of America. (1)
Praticamente, è come se la metà dell’economia americana fosse evaporata nel nulla.
La capitalizzazione dei mercati globali (il valore delle azioni) è scesa del 14,7% in tre mesi.
Un crollo senza precedenti in tutte le passate crisi, a parte il 1929.
E tutto questo, innescato dal mercato dei mutui subprime.
«Un piccolo segmento, credevamo, del settore finanziario americano», per non parlare di quello globale, ammette Joseph Quinlan, stratega-capo della Bank of America e autore del rapporto. «Invece, ora vediamo che è vero il contrario».
A cascata, dal «piccolo segmento» dell’enorme giostra finanziaria, la peste si è diffusa come un lampo nei settori che gli speculatori credevano «sani».
Dalla Borsa di Wall Street alle Borse mondiali, private di paratie stagne dalla globalizzazione forzata.
Dalle banche USA alle banche di tutto il mondo.
E’ la crisi «più cattiva della storia finanziaria», dice Quinlan.
L’immensa bolla finanziaria si sgonfia tutta quanta.
Dalle azioni sopravvalutate, ai fondi-pensione che le hanno in portafoglio.
E non potranno pagare le pensioni promesse.
E giù giù, ad altri settori fino ad oggi ignorati, e ritenuti «sani».
Il motivo lo spiega con un magistrale commento, sul New York Times, Paul Krugman (2).
Negli anni 80-90, le precedenti crisi cominciavano in Paesi lontani di cui per lo più non si sapeva nulla (Thailandia, per esempio) e si estendevano per contagio ad economie che non avevano apparenti legami con la Thailandia, come Russia o Brasile.
Oggi, il contagio non avviene tra Paesi, ma «tra diversi mercati».
I guai sono cominciati un anno fa «in un oscuro settore del sistema finanziario, i titoli garantiti da mutui subprime con rating BBB-».
Un piccolo settore, si credette.
Oggi, la peste «ha contagiato le obbligazioni d’impresa, i prestiti per le auto, le carte di credito ed oggi – ultima vittima – i prestiti agli studenti».
I prestiti agli studenti?
Già.
In USA, chi vuol andare all’università contrae un prestito, una specie di mutuo.
Talora, sono gli Stati a gestire questi prestiti, a tasso agevolato, in qualche modo fuori mercato.
Ma da pochi giorni il Michigan ha dovuto cancellare il suo programma di prestiti allo studio.
La causa?
«L’improvviso collasso di un altro mercato finanziario da 300 miliardi di dollari di cui non avevamo mai sentito parlare, il mercato per le auction-rate securities».
«Auction-rate securities» significa, più o meno, obbligazioni valutate all’asta.
Una delle innovazioni della finanza creativa.
Ma che cosa hanno a che vedere con i prestiti agli studenti?
Krugman lo spiega nel modo più limpido possibile.
Perché le «auction rate securities sono in sé una faccenda complicata, che sembrava offrire qualcosa per niente».
Queste obbligazioni sembravano sicure come denaro liquido, in quanto venivano comprate e vendute in aste settimanali: chi voleva realizzare, in una settimana andava all’asta con le sue obbligazioni, che vendeva facilmente a chi voleva entrare in quel mercato, ossia comprare quei titoli così liquidi.
Ad indebitarsi offrendo questo tipo di titoli sono stati i governi locali USA o le loro istituzioni semi-governative, dalla Port Authority di New York fino, appunto, alla Michigan Education Student Loan Authority: perché sembravano il modo ideale per indebitarsi a lungo termine (a quando gli studenti ripagavano a rate il loro debito) senza dover pagare lo scotto dei più alti tassi che gli speculatori (investitori) chiedono per dare credito a lungo.
Gli speculatori (investitori) si credevano al sicuro dal rischio di fare prestiti a lungo, proprio perché potevano liberarsi delle obbligazioni semi-statali ad ogni asta, una la settimana.
Il mercato era liquido, liquidissimo.
A patto, s’ìntende, che all’asta si presentasse qualcuno desideroso di comprare i titoli che gli speculatori vendevano.
Oggi, con la crisi dei subprime, le aste vanno a vuoto.
Persino in Borsa chi vuol comprare è sempre in numero inferiore a chi vuole vendere (di qui la perdita colossale dei «valori»), figurarsi quanti vogliono dar denaro a questo piccolo mercato.
Ma se un’asta fallisce, scatta una clausola a cui nessuno, prima, aveva fatto caso: il tasso d’interesse su quei titoli schizza in alto, per invogliare i compratori con frutti più grassi.
E questo pesa sui governo locali e le loro istituzioni.
Per esempio, l’obbligazione-asta della Port Authority di New York, che recava un interesse del 4,3%, ora è saltata al 20%.
E’ qualcosa che non si riteneva possibile avvenisse, invece avviene.
Gli investitori speculatori vanno all’asta per liquidare le obbligazioni, e se le devono tenere perché nessuno le compra; i debitori statali o semi-statali vedono accrescere il peso del loro debito, pagando interessi del 20%, schiaccianti.
Va male per gli uni e per gli altri.
Eppure, ricorda Krugman, la Port Authority di New York funziona bene oggi come un mese fa:
fa funzionare in modo esemplare il porto della metropoli, ricava profitti come prima, è un debitore credibile e solvibile.
Soffre, e forse dovrà fallire, solo «per contagio».
Con effetti enormi sull’economia reale.
Paul Krugman dice: assistiamo «alla crisi di una fede».
La fede che un’economia basata sui debiti, sulla promessa di pagare di miliardi di persone e imprese e Stati, sarebbe stata sempre «liquida».
Crisi di fede nelle agenzie di rating, quelle che ci hanno assicurato che i titoli garantiti da mutui concessi a gente disoccupata o a protestati valevano AAA.
La grande, ultima, vera fede americana: vivere da ricchi a credito.
Perduta la fede che le «auction rate securities» sono buone come denaro contante, esse – come accade quando la fede crolla – non trovano nuovi fedeli pronti a comprarle.
Le obbligazioni «sicure» diventano un investimento a rischio.
Standard & Poors e Fitch hanno un bel ripetere che sono AAA; la gente non crede più a quegli oracoli.
La crisi di fiducia realizza la propria profezia negativa: i «valori» erano basati su un’illusione,
ed ora che l’illusione è smascherata, i «valori» scendono.
Verso lo zero.
E non si crede più alle carte di credito, né ai prestiti-auto: sicchè, oggi consumare a credito costa mostruosamente di più, fino al fallimento delle famiglie.
Avviene ciò che si vide negli anni 1930-31, dice Krugman, solo in modo meno «fotogenico».
Allora, c’erano le file vistose di risparmiatori depositanti arrabbiati e spaventati davanti alle banche per ritirare i loro risparmi, che pestavano ai portoni delle banche chiuse perché senza denaro.
Oggi, nella finanza virtuale ed elettronica, il fenomeno è lo stesso anche se invisibile: tutti vogliono indietro i propri soldi, nessuno è disposto a prestarli a nessun altro.
Se non al 20% almeno.
E ciò, si noti, mentre la Federal Reserve ha tagliato drasticamente i tassi primari: in teoria, indebitarsi oggi costa pochissimo.
Ma in realtà, le famiglie e le imprese, anche sane, vedono aumentare i loro interessi passivi.
La FED non suscita più alcuna fede, non ne suscitano i giornali e gli economisti che predicano ottimismo.
E il contagio continua a galoppare, si estende da mercato a mercato, da settore a settore.
Non si sa quando si fermerà.
L’intervento statale, oggi invocato dai più dogmatici liberisti, non sta funzionando.
Il governo di Londra ha di fatto nazionalizzato (ossia comprato con tutti i suoi debiti, a spese del contribuente) la Northern Rock, ma la fede non è tornata.
Berlino ha appena salvato allo stesso modo una delle banche tedesche agonizzanti, la IKB.
Parigi ha cercato invano un compratore privato per la Société Génerale, ora rivelatasi titolare di un buco di 7 miliardi di dollari.
Il Giappone controlla le sue banche da un decennio, ma queste banche si sono ingolfate di tante obbligazioni garantite da debiti (CDO), da far sì che oggi le banche nipponiche perdano più della liberista Wall Street.
Ma perché?
Perché questi interventi pubblici non sono di tipo keynesiano né colbertiano.
Non hanno di mira il salvataggio della gente che perde la casa per gli interessi eccessivi, né dei posti di lavoro dei salariati.
L’intervento è mirato a salvare gli strapagati banchieri, e i loro genii della finanza creativa, gli autori stessi del disastro, i sacerdoti (in Porsche e Ferrari) della religione fallita.
Si cerca di salvare la speculazione, e con essa il dogma sotteso al liberismo; si cerca disperatamente di riavviare la giostra del debito «liquido», contraddizione in termini che reggeva solo finchè reggeva la fede.
Ora, l’Occidente perde la sua ultima religione, la credenza nell’usura e nelle cambiali.
E affonda perché i sacerdoti del dio che ha fallito non sono i primi a finire sul lastrico della disoccupazione.
Loro hanno ancora la Porsche, e la voglia di tornare al gioco.
Ma sono i gonzi che non credono più alle loro abilità.
Ogni «intervento» a loro favore aggrava la situazione: e non si vede all’orizzonte alcun Colbert.
Maurizio Blondet
17/02/2008
www.effedieffe.com
- «US subprime crisis costs global 7.7 trillion dollars: bank», AFP, 14 febbraio 2008.
- Paul Krugman, «A crisis of faith», New York Times, 15 febbraio 2008.