Come il Parlamento italiano appoggia la mafia

Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, e tutte le altre organizzazioni
criminali mafiose che operano sul nostro territorio sono oggi più forti che mai.

Si dice che ciò sia dovuto al fatto che lo Stato si disinteressa al problema, ma
se analizziamo meglio le cose emerge che il nostro potere legislativo si
interessa moltissimo alla mafia, ma non per combatterla, bensì per sostenerla e
proteggerla. Dopo il 1992, il nostro Parlamento ha approvato una serie di leggi
a favore dei mafiosi, ad esempio, per far riciclare più facilmente il denaro
sporco, per permettere di sfuggire alla giustizia o di rimanere in carcere il
meno possibile. La mafia è oggi fortissima grazie al Parlamento e al governo.


Diversi magistrati, come Nicola Gratteri, denunciano questa situazione da
anni, dimostrando come il loro lavoro, a causa delle leggi pro-mafia, subisce
continui rallentamenti, ostacoli e frustrazioni.
Le leggi pro-mafia non sono
una novità degli ultimi anni. A lungo le nostre istituzioni hanno cercato di
negare il fenomeno mafioso inquadrandolo all’interno di una definizione generica
di “bande di delinquenti” e facendo in modo che i mafiosi la facessero franca.

Per molto tempo le leggi contro la mafia praticamente non esistevano, dato
che il fenomeno veniva minimizzato o negato. Ad esempio, il Cardinale di Palermo
Ernesto Ruffini, dopo l’attentato di Ciaculli (1963), scrisse al Segretario di
Stato Vaticano Cardinal Amleto Giovanni Cicognani che “la mafia era
un’invenzione dei comunisti per colpire la D.C. e le moltitudini di siciliani
che la votavano”. (1) Per alcuni deputati la mafia era “un’esagerazione della
stampa”. (2) 
Soltanto nel 1982, dopo l’uccisione di Pio La Torre e del
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, venne approvata la legge La Torre (n. 646,
G. U. n. 253 del 14 settembre 1982) in cui per la prima volta si definiva il
delitto di “associazione di tipo mafioso”.
Quando l’esistenza della mafia fu
una volta per tutte ammessa, ai parlamentari non rimaneva altro che sabotarne la
lotta. Numerosi esponenti della magistratura hanno denunciato (e continuano a
denunciare), diverse tecniche di sabotaggio. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il
Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva
occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà:
“Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la
nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte
al Csm”. (3)
Dalla seconda metà degli anni Ottanta e fino alla morte di
Falcone e Borsellino, gli italiani vissero un periodo di entusiasmo e di fiducia
nella possibilità di distruggere la mafia. La sconfitta del terrorismo aveva
fatto sperare che anche contro la mafia sarebbe stata utilizzata la stessa
determinazione. Racconta Giuseppe Di Lello, magistrato del pool:
“Il nostro
lavoro non aveva contribuito soltanto a fare chiarezza sul livello militare
della mafia. Aveva liberato molte forze della società civile e favorito un
processo di avanzamento del fronte progressista culminato con la ‘primavera di
Palermo’… c’era un interesse politico perché la ‘primavera’ avesse una
conclusione plateale… L’attentato all’Addaura, per esempio, si inseriva
perfettamente nella strategia di attacco al pool e a tutto ciò che esso
rappresentava. In quel momento Falcone capì anche che la bomba poteva arrivare
in qualsiasi momento e da qualsiasi ambiente… L’opera di screditamento è
continuata anche dopo il fallimento dell’attentato… Poi era spuntato il
‘corvo’ che aveva sparso i suoi veleni con le lettere anonime… dietro la
vicenda c’erano ambienti e uomini dello Stato che scrivevano su carta intestata
del Ministero dell’Interno”. (4)
Con l’omicidio di Falcone e Borsellino hanno
voluto spazzare via la speranza che la “primavera di Palermo” aveva creato.
Hanno voluto dire agli italiani: “rassegnatevi alla mafia, perché se anche ci
fosse qualcuno capace di estirparla, ciò sarà impedito”. Dopo questi omicidi, fu
evidente la spaccatura fra la gente comune e le istituzioni, che avevano
mostrato di non avere alcuna intenzione di distruggere la mafia. Dopo l’omicidio
di Borsellino i cittadini palermitani si sollevarono furiosi contro le
istituzioni, e i funerali del magistrato si celebrarono in forma privata,
attestando lo scollamento fra i parenti delle vittime della mafia, coloro che
lottavano contro la mafia e le istituzioni politiche che avevano mostrato
ampiamente da che parte stavano.
Oggi i magistrati non si limitano a
denunciare la grave situazione di forza della mafia, ma hanno idee su come si
dovrebbe affrontare la lotta antimafia. Nella trasmissione “Telecamere”, mandata
in onda il 20 novembre del 2006, il Ministro della Giustizia Clemente Mastella
ha cercato di zittire il magistrato Nicola Gratteri che, rispondendo alla
domanda della presentatrice Anna La Rosa su cosa si dovesse fare per combattere
efficacemente la mafia, aveva detto: “L’opposto di quello che è stato fatto
negli ultimi dodici anni”.
Mastella, rivolgendosi a un magistrato che è
costretto a vivere blindato per aver avuto il coraggio di capire cos’è davvero
la ‘Ndrangheta, anziché mostrare il massimo rispetto, disse nervosamente che
egli doveva limitarsi a fare “il suo mestiere” che al resto ci pensavano loro (i
politici). Il comportamento arrogante del ministro ha dimostrato, semmai ce ne
fosse stato bisogno, quanto poco i nostri politici siano interessati a capire
qual’è la strada giusta per contrastare la mafia. Se fossero realmente
interessati a questo, si varrebbero delle indicazioni di magistrati estremamente
competenti, anziché disprezzarli con sussiego. Il comportamento di Mastella non
lascia dubbi sulla solitudine in cui i magistrati sono abbandonati, oltre che
sul disprezzo con cui le nostre autorità politiche guardano tutti coloro che
realmente vorrebbero migliorare il nostro paese. Mastella è un degno esponente
di una classe politica che costringe i magistrati integri a vivere praticamente
reclusi, mentre i capimafia vivono tranquillamente liberi, e indisturbati
attuano i loro crimini.
Secondo Gratteri per contrastare la mafia occorre
“Abolire il patteggiamento allargato per i reati di mafia e prevedere le
notifiche tramite internet agli avvocati”.
La legge detta del patteggiamento
allargato, è entrata in vigore il 29 giugno 2003 (Legge 12 giugno 2003, n. 134,
“Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena
su richiesta delle parti”. G. U. n. 136 del 14 giugno 2003). La legge è stata
approvata con 261 voti favorevoli, 160 contrari e 7 astenuti. Fu
votata dall’allora maggioranza, mentre l’opposizione votò “no”, ma oggi
l’attuale maggioranza non l’ha abolita. Si tratta di strategie per mantenere il
consenso e la fiducia dei cittadini: la maggioranza approva leggi vergognose, e
l’opposizione mostra di rifiutarle, cosicché alle successive elezioni gli
elettori voteranno l’altra coalizione, che però si guarderà bene dall’abolire
quelle leggi che in precedenza non aveva votato.
Questa legge permette ai
mafiosi di richiedere l’applicazione del rito alternativo. Nell’Art. 1 la legge
dice:

“L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice
l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, dì una sanzione
sostitutiva o di una pena diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena
detentíva quanto questa, tenuto conto delle circostanze a diminuita fino a un
terzo, non superi cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.

La
legge introduce due forme di patteggiamento: una prevede l’applicazione della
pena detentiva massima di due anni (sola o con pena pecuniaria) con riduzione
fino a un terzo, l’altra prevede l’applicazione della pena detentiva da due a
cinque anni (sola o con pena pecuniaria). Questo significa che il magistrato si
troverà presto ad avere a che fare ancora con le stesse persone mafiose che
pochi anni prima era riuscito a far condannare.
Un altro metodo importante
ed efficace per combattere la mafia è l’intercettazione telefonica. Per questo
motivo il nostro Parlamento sta cercando di limitarla o impedirla. Per
nascondere il vero motivo, le autorità ci inducono a credere che il loro intento
è quello di proteggere la privacy dei cittadini. In realtà, se l’oligarchia
dominante lo decide, ognuno di noi può essere controllato, e se anche i
cittadini controllati riuscissero a provare i comportamenti illegali, sarebbero
costretti a constatare che nessun responsabile sarà trovato, come purtroppo è
già accaduto. Ciò prova che alle nostre autorità non interessa nulla della
nostra privacy, esse vogliono limitare l’azione dei magistrati, che attraverso
le intercettazioni potrebbero ricostruire i rapporti fra mafiosi e politici.

Come spiega il magistrato Luigi De Magistris, oggi la mafia è ben inserita
nell’ambiente finanziario, politico ed economico. Esiste una rete che ha
l’obiettivo di controllare tutti i finanziamenti pubblici, specie quelli
europei, coinvolgendo politici e finanzieri in tutta Italia. Utilizzare le
intercettazioni significa, prima o poi, trovare elementi che possano provare
tali legami, e smascherare quei politici che mentendo si professano estranei
alle reti mafiose.
In passato le intercettazioni hanno fatto emergere cose
altrimenti difficili da provare. Ad esempio, durante una telefonata intercettata
il 5 marzo 2004, Luciana Ciancimino diceva al fratello Massimo che “Gianfranco”,
personaggio vicino a Silvio Berlusconi, l’aveva invitata alla festa per i dieci
anni di Forza Italia, a Palermo. Massimo Ciancimino rispose che si doveva
partecipare alla manifestazione, anche per poter restituire a Berlusconi un
assegno di 35 milioni che anni prima era stato dato al padre. L’indagine su
Massimo Ciancimino, figlio del mafioso ex sindaco di Palermo, ha consentito alla
magistratura di stabilire presunti legami fra Ciancimino padre e la Fininvest.

Grazie a testimoni e a intercettazioni, il Pm di Potenza Henry John Woodcock
ha scoperto una rete affaristica e mafiosa fra massoni, politici e mafiosi (a
volte le tre definizioni coincidono in un’unica persona).
Massimo Pizza,
arrestato nell’ambito dell’inchiesta su traffici in Somalia, ha confermato che
esiste una rete che collega affaristi, politici, massoni e mafiosi: “Sono due,
le gran logge d’Italia da tenere d’occhio. Una in Calabria, l’altra in
Basilicata. Se lei (riferito al Pm Woodcock, ndr) va a vedere i componenti per
esempio della loggia di Calabria e va indietro, ricostruisce esattamente una
parte di rapporti italiani che ci sono stati, ma ricostruisce la trasformazione
organica della criminalità organizzata calabrese all’interno delle istituzioni a
livelli altissimi”. (5)
Sono state utili all’indagine alcune intercettazioni
sulla realizzazione di un rigassificatore al largo di Livorno. I due
interlocutori erano Giampiero Del Gamba, dirigente dell’Udc di Livorno, e
Valerio Bitetto, amministratore della Tecnoplan. I due, intercettati nel periodo
dicembre 2006/gennaio 2007, parlavano di come eliminare ogni ostacolo grazie
all’appoggio del governo.
Bitetto chiedeva “che rapporti ha con Enrico
Letta?”, Del Gamba rispondeva: “Qui ci sono dei rapporti qui da noi, eh? Con
Letta, sì, sì!”. In un’altra conversazione Bitetto diceva: “Senti, invece,
siccome è ormai ufficioso il negoziato tra Casini e Prodi, allora in questo
negoziato soprattutto penso che l’ostacolo che vogliono rimuovere è: sono
stanchi di accettare il ricatto di Pecoraro Scanio che ha bloccato tutto…
allora c’è un pacchetto di cose che secondo me finiranno al tavolo della
trattativa. A me, per i nostri progetti, mi interesserebbe un appoggio”. Del
Gamba rilanciava: “Mi ha chiamato ieri Casini, ma ero in macchina e poi gli è
entrata gente in stanza e non ha potuto proseguire il discorso, ma se non è
oggi, è subito dopo le feste che mi richiama, perché dobbiamo metterci d’accordo
su alcune cose che non funzionano all’interno del partito, capito? Per cui ho
l’opportunità di vederlo, di incontrarlo, e poi dirglielo in maniera seria,
concreta, ecco, capito?”. (6)
Bitetto, peraltro, sarebbe anche coinvolto
nelle indagini su Massimo Ciancimino. All’interno della Tecnoplan, società di
Bitetto, ci sarebbe un prestanome di Ciancimino, Gianni Lapis. Del Gamba fu
arrestato nel 1996 per l’inchiesta sulle Ferrovie.
Da tutto questo si capisce
cosa spinge il nostro Parlamento ad approvare leggi che possano limitare o
impedire le intercettazioni.
Con la Legge n. 281/06 del 20 novembre 2006, GU
n. 271 del 21 novembre 2006, sulle “disposizioni urgenti per il riordino della
normativa in tema di intercettazioni telefoniche” si è iniziato il percorso atto
a limitare o impedire la possibilità di utilizzare le intercettazioni
telefoniche. Al centro della legge c’è l’esigenza che le intercettazioni non
appaiano sui mass media. La legge mira ad intimidire gli editori e i
giornalisti, comminando sanzioni che prevedono addirittura il carcere fino a
quattro anni e multe fino a 1.000.000 di euro.
Sotto il governo precedente,
come tutti sanno, le cose per l’antimafia non andarono certo meglio. Il
centro-destra inserì nel Parlamento personaggi inquisiti per mafia, come Gaspare
Giudice e Marcello Dell’Utri, in segno di disprezzo assoluto verso la legalità e
le istituzioni. Divennero ministri personaggi come Pietro Lunardi, che aveva il
coraggio di sostenere che si doveva “convivere con la mafia”, che equivale a
dire di dover accettare il crimine e la violenza. In altre parole, un ministro
della Repubblica chiedeva con disinvoltura ai cittadini di accettare una realtà
antidemocratica, criminale e civilmente involuta.
Oggi, come molti sanno, il
nostro Parlamento è pieno di persone che hanno avuto condanne penali, come
Massimo Maria Berruti (deputato FI), Giampiero Cantoni (senatore FI), Marcello
Dell’Utri (senatore FI), Gianni De Michelis (deputato Nuovo Psi), Gianstefano
Frigerio (deputato FI), Walter De Rigo (senatore FI), Giorgio La Malfa (deputato
Pri), Calogero Sodano (senatore Udc) e Vincenzo Visco (deputato Ds). Altri sono
stati assolti per “prescrizione”, come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi.
Nessuno di noi assumerebbe queste persone, nemmeno per tagliare l’erba del
giardino, eppure, come fosse accettabile, siedono nel nostro Parlamento e fanno
le nostre leggi!
Quando ritornò al potere, nel 2001, Berlusconi disse che una
sua priorità era quella di “riscrivere i codici”. Si trattava di far passare
leggi che diminuissero il più possibile il potere dei magistrati, in modo tale
che anche i giudici più onesti e capaci non potessero in alcun modo contrastare
né la mafia né la corruzione politica. I progetti di legge furono diversi,
ricordiamo, ad esempio, quello per sottrarre al controllo dei magistrati la
polizia giudiziaria (legge Mormino) o quello che avrebbe consentito di
revisionare i processi (anche quelli con sentenza definitiva) celebrati prima
dell’approvazione del “giusto processo” (legge Pepe-Saponara). Questa legge
avrebbe permesso ai mafiosi condannati all’ergastolo di rifare i loro processi.

All’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli premeva che il carcere
per i mafiosi non fosse duro: “41 bis, nessuno sarà condannato al carcere duro a
vita”. (7) “(Occorre) evitare forme di carattere vessatorio (il 41 bis sarà
applicato) solo nei casi in cui è strettamente necessario”.(8)
Tale
riformismo è stato guardato con inquietudine da molte persone, per i pericoli
insiti nel voler controllare e sottomettere il potere giudiziario. Come fece
notare il Giudice della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri, durante la
Conferenza “Riforma della giustizia e difesa dei diritti”, svoltasi a Brescia il
19 maggio del 2005: “Le stesse persone che hanno fatto la legge potrebbero
interpretarla ed applicarla non a garanzia dell’universalità dei cittadini, ma a
garanzia di quel gruppo dominante che le ha espresse”.
E’ nota la vasta
campagna, portata avanti per anni nel nostro paese, di delegittimazione dei
magistrati che hanno il coraggio di fare il proprio dovere anche quando si
trovano di fronte a personaggi che fanno parte dell’oligarchia di potere.
L’élite dominante cerca di far credere che ci sia qualcosa che non va in chi è
moralmente integro, propugnando metodi che mirano a mettere in cattiva luce chi
non è corrotto. Tentano di ribaltare i termini: vorrebbero far figurare i
corrotti come gli integerrimi e i magistrati onesti come i corrotti. Avendo
nelle mani un immenso potere mediatico riescono a veicolare le notizie
funzionali a tale inganno.
Ad oggi, nel nostro paese i magistrati integri e
coraggiosi vengono perseguitati ferocemente dai mass media e dal Parlamento. Gli
esempi potrebbero riempire libri interi. Ricordiamo il caso di Giancarlo
Caselli. Il 15 dicembre 2005, alla Casa della cultura di Milano, Caselli
presentò il libro “Un magistrato fuori legge”, in cui racconta la sua
sconcertante storia. Nel libro si legge: “Sono l’unico magistrato italiano al
quale il Parlamento ha dedicato espressamente una legge. Una legge contra
personam che mi ha espropriato di un diritto: quello di concorrere alla pari con
altri colleghi, alla carica di Procuratore nazionale antimafia”. La “colpa” di
Caselli è stata quella di istruire il processo a Giulio Andreotti. Col solito
metodo mediatico di ribaltamento dei termini, il magistrato diventò in breve
tempo una specie di personaggio infame, mentre Andreotti figurava come vittima.

Un altro attentato alla giustizia avviene attraverso i tagli alla spesa
pubblica, che hanno diminuito significativamente i fondi destinati alla
giustizia. I magistrati sono oggi costretti a lavorare senza il minimo
necessario, come la carta, il fax e la manutenzione del computer. Limitare i
mezzi finanziari significa umiliare, mettere in gravi difficoltà un settore
fondamentale per la tutela dei diritti e la democrazia.
Il 17 luglio scorso,
durante la trasmissione “W l’Italia” di Riccardo Iacona, sono intervenuti i
magistrati Nicola Gratteri e Luigi De Magistris, che hanno chiaramente parlato
di grave pericolo per lo Stato di Diritto. Gratteri ha detto: “Lo Stato ha
tradito… il confine fra Stato e antistato non c’è più”. Lo stesso magistrato
ha denunciato quanto sia d’ostacolo la legge sul patteggiamento allargato e il
grave regresso delle leggi sulla lotta alla mafia.
In un paese realmente
democratico cosa sarebbe dovuto accadere se un giudice della Repubblica avesse
denunciato che “Non c’è più confine fra Stato e antistato”? Le persone che
stanno in Parlamento, se fossero motivate al benessere del paese, avrebbero
risposto allarmate e proposto un pacchetto di leggi adatte a combattere
efficacemente la ‘Ndrangheta, dando priorità a questo gravissimo problema. E
invece cosa è successo? Nessuno ha risposto, silenzio assoluto. Un silenzio
assai eloquente.
Neppure il nostro presidente della Repubblica, che si
dilunga spesso in prediche di stampo paternalistico, ha sentito l’esigenza di
dire qualcosa. Di fronte alle questioni cruciali per il futuro del paese, le
nostre autorità non parlano, non vedono e non sentono. Si comportano come se non
dovessero dare alcuna spiegazione al paese, come se non ci fosse alcuna
responsabilità, come fossero anche loro semplici cittadini. Cosa occorre per far
loro assumere le responsabilità delle loro cariche? Il Presidente della
Repubblica, il Presidente del Consiglio e il Ministro di Grazia e Giustizia
vogliono continuare a nascondere che l’Italia è ormai completamente piegata al
potere mafioso/massonico manovrato da chi sta a Washington?
Il faccione
benevolo di Prodi non serve a far dimenticare a chi vive in Calabria, in Sicilia
o in Campania cosa significa subire la devastazione dell’economia, dell’ambiente
e della fiducia nel progresso civile. Questa sofferenza che gli italiani
provano, vittime in vari modi della mafia, non è inevitabile. Infatti, se
riuscissimo a cacciare definitivamente tutti i partiti manovrati dall’alto e i
loro burattini, la mafia sarebbe distrutta nel giro di pochi mesi, perché essa
si regge grazie al sistema e senza tale protezione non avrebbe più alcuna forza.
Se non fosse stata sostenuta dal sistema, la mafia sarebbe stata distrutta dal
pool Antimafia, che stava aprendo il vaso di Pandora per portare alla luce tutto
il marciume del sistema che regge la mafia: banche complici, holding
internazionali mafiose, ecc. La mafia è un coacervo di malvagità, destinato a
creare altra malvagità, sofferenza e involuzione spirituale e morale. Essa
stimola la rabbia o la paura, costringendoci ad una situazione di mancata
serenità, che incide sulla qualità dell’esistenza e sulle possibilità di
sviluppo interiore. Essa è assai utile al potere ma è gravemente nociva per
l’intera collettività. L’appoggio che la mafia ha da parte delle nostre
istituzioni non può e non deve essere tollerato, occorre prendere le distanze da
chi permette alla mafia di continuare ad avere potere sul nostro paese. Queste
persone sono complici di chi ha ucciso Falcone, Borsellino e tantissime altre
persone oneste e coraggiose.
L’attuale sistema partitico garantisce che una
percentuale molto alta di deputati e senatori rimarrà invariata a lungo, e ogni
elezione apporta minimi cambiamenti che non saranno affatto determinanti. Questo
significa che solo pochissime persone, come Giuseppe Lumia, lotteranno per
mettere la lotta alla mafia fra le priorità del Parlamento, ma ciò sarà vano,
perché la stragrande maggioranza dei parlamentari non sosterrà la loro
battaglia. Le elezioni, dunque, non cambiano nulla finché si è all’interno
dell’attuale sistema partitico, in cui tutti i grandi partiti sono controllati
dall’oligarchia dominante, che non ha alcun interesse ad eliminare la mafia, ma
ne ha moltissimo a mantenerla forte e potente.
Una cosa è certa, se vogliamo
continuare ad avere una criminalità organizzata forte e ricca dobbiamo
appoggiare ancora l’attuale sistema partitico, in cui la maggior parte dei
candidati sono a servizio del gruppo egemone, ossia di coloro che stampano le
banconote caricandone il valore nominale sul nostro debito e che fanno le guerre
per difendere il loro potere ovunque. Queste stesse persone hanno bisogno dei
mafiosi per sottomettere i popoli più “ribelli” e per portare avanti i traffici
illeciti (traffico di droga, contrabbando, estorsioni, ecc.). Sostenere
l’attuale sistema politico equivale a sostenere la mafia e le guerre. Durante le
campagne elettorali, i partiti hanno come obiettivo primario di convincerci che
con le nuove elezioni le cose cambieranno, promettendo riforme importanti che
puntualmente disattenderanno. Dopo ogni elezione, andranno in Parlamento, per la
maggior parte, coloro che c’erano già, e i nuovi sono stati scelti dagli stessi
partiti (nel momento in cui li hanno candidati), che non metteranno mai in
Parlamento (essendo controllati dall’élite) molte persone decise a cambiare le
cose. Di queste ultime ne bastano poche unità, talmente poche da non avere alcun
potere. Il sistema di far eleggere pochissime persone “rispettabili’, ossia
migliori moralmente delle altre è una vera e propria tecnica, utilizzata persino
in Iraq e in Afghanistan. Serve ad illudere e a suscitare fiducia in un sistema
che è compromesso alle radici, per evitare che risulti troppo evidente che
l’unica via d’uscita consiste nell’estirparlo come si fa con un’erbaccia o con
cancro che divora l’organismo.
Quasi tutte le persone che eleggiamo, scelte
dai partiti attuali, non saranno mai a servizio della collettività, appartenendo
ad un sistema politico che ha il fulcro nell’appoggio al gruppo che detiene il
potere finanziario ed economico. Eleggendo queste persone diventiamo loro
complici, e le autorizziamo, seppur indirettamente e illudendoci di fare il
contrario, ad approvare leggi che provengono dal sistema stesso, il cui unico
scopo è quello di autoperpetuarsi. In altre parole, le elezioni servono a far
credere che i politici sono i rappresentanti del popolo, e che opereranno per
l’interesse dei cittadini. Dato che ciò non è vero, si tratta di una truffa.

Si può scegliere fra la mafia o la lotta antimafia. La scelta avviene ogni
giorno, nella misura in cui decidiamo di sostenere l’attuale sistema,
diventandone complici, oppure di prenderne le distanze, ripudiando ogni tipo di
sostegno.



Antonella Randazzo

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