Se Draghi dice che il Sud frena il paese, allora lasciamolo libero
Palermo, 13 settembre 2007
L’Italia che conta, quella dell’alta finanza e dei grand commis di
stato, si sta accorgendo che a sud di Roma non è rimasto molto da spremere
dopo un secolo e mezzo circa di spoliazioni e colonizzazione.
Il Sud sarebbe dunque una “palla al piede”, anzi, non è questo il male
in sé, ma il freno “al resto del paese, di cui acuisce i problemi, non
solo economici”. E’ il solito discorso legaiolo, detto ora in fine
linguaggio da economisti. E fra le righe viene fuori la verità ancora non
confessabile ufficialmente.
Le condizioni di sottosviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno non interessano a nessuno in quanto tali, del resto non siamo mai stati veri cittadini, tutt’al più “terroni” che diventano tali se emigrano e nascondono accuratamente le loro origini; non interessano almeno fino a che non si toccano gli interessi del “resto del paese”, dove il “paese” è il solito amorfo nome usato per definire quella costruzione politica sempre più artificiale chiamata Repubblica Italiana. Strano nome, inventato dai democristiani nel dopoguerra dopo che la “patria italiana” evocava soltanto risolini sarcastici, almeno fuori
dalle caserme e da pochi circoli di ingenui.
E’ vero. Milano e Roma non potranno mai essere normali se non si
liberano di Napoli e di Palermo con le quali hanno ben poco da spartire. Sì,
anche Roma ha ben poco da spartire con la vicinissima Napoli.
O se, teoricamente, non ne favoriscono un “vero” sviluppo.
Ma qui entra la contraddizione che Draghi non vede o fa finta di non
vedere. Perché c’è tutta questa capacità produttiva, innanzitutto umana,
ma anche ambientale etc. che resta inutilizzata?
Perché a sud di Roma non attecchisce niente?
Problemi razziali o sistematica subordinazione di queste colonie interne agli “interessi nazionali” e degli ascari locali?
Beninteso! Noi non riteniamo affatto che gli interessi della Sicilia,
ricchissima di risorse naturali e umane che la renderebbero paese
autosufficiente, debbano confondersi con quelli del Mezzogiorno, o che a noi
soli tocchi da ora in poi sopportare il peso di un nuovo centralismo
fondato da strutture che abbiano la testa o l’anima a Napoli, tipo la
vecchia Cassa del Mezzogiorno o la fantomatica banca del sud di Tremonti.
La Sicilia può farcela da sola, ma gli italiani la devono lasciare
intanto autogovernare davvero, secondo il suo Statuto conquistato col
sangue. E se questo Statuto è a soli tre passi dall’indipendenza, pazienza,
succeda quel che deve succedere. Ma dubitiamo che in tempi di
gravissima crisi energetica si lasci che i Siciliani si tengano gas, petrolio ed
energia e li facciano pagare salati al Continente. E riteniamo che la
stessa ricetta possa valere per il Sud continentale, che magari
dovrebbe riunire le attuali 6 artificiali regioni (senza storia, tutt’al più
divisioni amministrative) in una grande macroregione che, nei confini
dell’antico Reame di Napoli, abbia uno Statuto identico a quello
siciliano che poi, viste le dimensioni, equivarrebbe ad una larvata
indipendenza.
Non parliamo poi della Sardegna che di italiano ha ancor meno di noi.
Siamo un peso per la nazione?
Ci lascino in pace e troveremo la nostra strada … così anche “il
resto del paese” troverà la sua. Senza rancori.
Comincino con la Sicilia.
Se funziona potranno fare lo stesso con il sud. Mal che vada si saranno
liberati di quasi metà del problema.
Ma purtroppo quello che non è ancora prevalente è una presa di
coscienza e uno scatto di orgoglio da parte della maggioranza dei Siciliani che
da una simile emancipazione avrebbero da perdere soltanto le catene di
miseria, mafia, disoccupazione, emigrazione e infamia cui oggi sono
legati.
Queste dichiarazioni ai massimi livelli finanziari del “paese” equivalgono ad una pubblica dichiarazione di fallimento dell’Unità d’Italia.
Tanto vale prenderne atto. Non è solo la lingua o una mediocre TV che fanno una nazione.
Perché ancora tutti fanno finta o quasi di non accorgersene?
L’Altra Sicilia, Palermo