Quanto costò alla Sicilia lo sbarco delle banche del centro-nord

«Potrete ingannare tutti per un po’.
Potrete ingannare qualcuno per sempre.
Ma non potrete ingannare tutti per sempre»
Abramo Lincoln

Le banche in Sicilia del tempo di Fazio.
Ovvero come la Sicilia ritrovò, suo malgrado o per
sua colpa, la millenaria vocazione di granaio d’Italia, nutrendo e rifornendo le
casse degli istituti del centro-nord, alcuni di partenza minuscoli o
insignificanti, grazie ai cosiddetti “accorpamenti” operati a partire dalla
seconda metà degli anni 90 con la benedizione, e spesso sotto la guida,
dell’ormai ex Governatore.


E poiché senza di lui nessun istituto poteva batter
cassa, verrebbe da pensare a una regia, a un disegno per rendere il sud sempre
più sud, e il nord sempre più nord. Nel senso però piemontese
post-risorgimentale: Meridione porta-braccia ed enorme mercato da sfruttare;
Meridione da spogliare e colonizzare. E c’è chi azzarda il paragone con l’Unità
d’Italia, quando il “Banco delle Due Sicilie”, istituto d’emissione e zecca, fu
scisso nel 1867
in
“Banco di Sicilia” e in “Banco di Napoli”, con i
forzieri ancora ricolmi d’oro perché i borboni non riuscirono a svuotarli in
tempo. Perché nel sud i soldi ci sono. Miliardi di miliardi di depositi negli
sportelli bancari da parte dei milioni di siciliani. Euri che quaggiù (o laggiù)
perlopiù sono depositati e non investiti. E qui sta il punto. “Le banche del
nord
– illustra Giuseppe Lo Giudice, docente di Storia economica alla
facoltà di Scienze politiche di Catania e autore di tutto lo scibile sulle
banche isolane – avevano bisogno di risparmi, di raccolte, di denaro
contante. Così sono venute qui per approvvigionarsi e reinvestire al nord.
Certo, anche per colpa dei siciliani, spesso alle prese con dissapori interni e
guerre di potere. Invece quelli del nord, badano al sodo, è gente del
mestiere
”.

Scendono alla
spicciolata tra il 1988 e il 1990


 

Questa gente di
mestiere sbarca in Sicilia all’incirca fra il 1988 e il 1990. Operazioni che
viste oggi appaiono preliminari al terremoto che si sarebbe scatenato fra il ’94
e il 2002. Alla spicciolata “scendono” per prime la Popolare di Novara (oggi Verona e
Novara), la
Montepaschi
, il San Paolo. Ma il primo colpo è l’acquisizione
della Mercantile da parte della “Lodi”. Particolarmente attivi, i lombardi, non
ancora “Bipielle”, capitanati da Angelo Mazza, “gran galantuomo, morto d’infarto
a 58 anni”, commenta Piero Di Prima, ex europarlamentare di Forza Italia ed ex
direttore generale e amministratore delegato del Banco di Credito siciliano di
Canicattì, Agrigento, istituto fondato dal nonno nel 1886. “Avevamo 33
sportelli e un mare di clienti
– racconta Di Prima – ma nel ’95 ci
mandarono a chiamare dalla Banca d’Italia e ci dissero che dovevamo trovarci un
partner. partner. Ci siamo consumati
”. Il partner praticamente imposto fu
la Bipielle.
Fummo costretti a vendere – insiste con colorito linguaggio – poi
Fiorani s’impossessò della Lodi e mandò in crisi il management siciliano. A mmia
mi licenziò, poi ho vinto la causa. Vennero i loro dirigenti: ordine di fare
rientrare i clienti in scopertura, niente più fidi, e si portavano i soldi là in
Lombardia
”. E come un rullo Bpl acquisisce la Banca del Sud, le popolari di Belpasso
e Bronte, altre minori. “La
Lodi
fu usata come assorbitrice di piccole e medie
realtà
– ricorda Corrado Pedalino, sindacalista – su volontà della Banca
d’Italia. Il credito siciliano fu equiparato alla mafia. Si passò all’eccessivo
rigore, si susseguirono ispezioni costanti e rigorose
”. L’accelerazione
brusca del cambiamento avviene in piena Tangentopoli. Per esempio
la Banca
agricola etnea, di proprietà del cavaliere Graci, sotto ispezione, doveva
cercarsi un partner, che trovò nel “Credem”, offerta 30 miliardi, ma le azioni
erano sotto sequestro. Seguì l’asta pubblica e la “Bae” divenne “Antonveneta”
per 14 miliardi. Era in incubazione però l’operazione più colossale:
l’accaparramento del Banco di Sicilia, colosso che vacillava per via delle
esposizioni a favore dei “cavalieri” catanesi, ma che con gli anni ha dimostrato
consistenza. “Era in mano ai politici – spiega lo storico Tino Vittorio –
e fortemente esposto e svalutato. Al primo scuotimento dell’albero venne
giù
”. Elia Randazzo, addetta commerciale in una filiale palermitana e
segretaria della Fiba nazionale, chiarisce i termini della contesa: “Il Banco
non era affatto in sofferenza. Si trattava di un ente di diritto pubblico
passato in una stagione a una banca privata nel ’98
”. Un’autentica
operazione “pesce grande mangia pesce piccolo”. Dapprima il Banco di
Sicilia assorbì la “Cassa centrale di risparmio per le province siciliane
Vittorio Emanuele”, anno di fondazione 1862, un portafoglio pensioni di 800
miliardi di lire. A sua volta viene acquistato dal Banco di Roma per 1.500
miliardi nel 1999.
In
parallelo decolla l’invenzione “Capitalia”, da una
costola di via Nazionale. Il 1° luglio 2002 si realizza la fusione per
incorporazione del Banco di Sicilia spa con Banca di Roma e la contemporanea
creazione della holding “Capitalia”, nella quale confluiscono anche
“Bipop-Carire”, “Fineco” e “Medio Credito Centrale”. Nello stesso periodo il
Banco di Napoli è trasvolato verso il San Paolo di Torino. Risultato:
cancellazione di ogni tipo di banca di degne dimensioni da Roma in giù, tranne
eccezioni come la
Banca
agricola popolare di Ragusa, che affonda le sue radici in
una Provincia a se stante, con una economia fiorente.

“Il sistema fu
interamente smantellato”

Elia Randazzo
racconta che l’operazione Banco di Sicilia fu seguita personalmente da Fazio,
che più volte si recò a Palermo e difese l’operazione. Lo fece al “Centro
Borsellino”, allora gestito dal prete manager Giuseppe Bucaro, successivamente
inquisito. Il Centro è stato messo in liquidazione da un paio di mesi da
Manfredi Borsellino, il figlio del magistrato ucciso dalla mafia, come il Foglio
apprende da fonte diretta. “Il sistema creditizio siciliano fu interamente
smantellato con la copertura della Banca d’Italia
– sostiene convinto Paolo
Mezio, segretario regionale della Cisl – La situazione non era così
devastante. Ammesso che ci fosse una sofferenza, al nord la banca della Lega
l’hanno salvata. Qui nessuno si oppose, tranne il sindacato
”. In realtà i
siciliani rimasero a guardare. In pratica tutti i politici, centrodestra e
centrosinistra, assistettero allo stravolgimento del sistema bancario siciliano
senza batter ciglio. Soprattutto senza produrre un briciolo di idea alternativa.
Qualcuno anzi sotto sotto plaudiva e apriva le porte. “Fazio usò Capitalia
come in altre stagioni fu utilizzata l’Iri
– dice Giuseppe Mineo, docente di
Diritto privato e consigliere d’amministrazione del nuovo Banco di Sicilia, che
ha formalmente sede a Palermo – Dietro l’immagine sacerdotale di Bankitalia
si sviluppavano trattative, intrecci, contatti. La lettura delle sofferenze di
Sicilcassa e Banco fu particolarmente rigida. Così il territorio siciliano fu
trasformato in luogo di profitto. I nostri sistemi furono emarginati, non più
pensati da noi e per noi
”. Ne è convinta Elia Randazzo, che vive
quotidianamente vertenze e palpitazioni: “Il pericolo è che il Banco di
Sicilia sia trasformato in una rete di sportelli. Il 31 dicembre il patrimonio
immobiliare, per 675 milioni, è passato a Capitalia spa. Pagheremo l’affitto in
quegli immobili che erano nostri. Non solo, ma da Roma decidono ormai tutto:
pensi che hanno concesso un appalto a una ditta di pulizie di Genova, che poi ha
subappaltato, e che le nuove insegne sono state realizzate da una ditta di
Bassano del Grappa, per 5 milioni di euro. Così muore anche l’indotto e le
duemila piccole aziende che ci ruotavano intorno
”. Nel dettaglio Capitalia
ha incassato 339 immobili tramite un atto che formalmente si chiama “scissione
parziale d’azienda”. Immobili che saranno immessi sul mercato. Tutti tranne due,
che sono rimasti in casa: i prestigiosi Palazzo Branciforte e Villa Zito,
gioielli liberty nel cuore di Palermo. Villa Zito è la casa storica della
“Fondazione Banco di Sicilia”, e come tutte le fondazioni ha un proprio
capitale. Ebbene, prima della fine dell’anno 2005, prima della transazione del
patrimonio Bds a “Capitalia spa”, la stessa “Capitalia” ha venduto alla
“Fondazione” i due storici edifici. Costo complessivo 21 milioni di euro più
Iva; totale 25 milioni. Un’operazione ideata e realizzata da Gianni Puglisi,
presidente della “Fondazione”, che ci pensava già da “vice”, operazione avallata
dal direttore generale di vigilanza sulle Fondazioni del ministero delle
Finanze, Roberto Ulissi. “Abbiamo acquistato – racconta Puglisi – al
valore patrimoniale fissato da Capitalia prima del 31 dicembre, evitando che
questi beni diventassero oggetto di mercato. Un favore? Perché usare questi
termini? Si è trattato di una normale compravendita fra privati
”. Non solo,
ma la
Fondazione
non ha mica prosciugato le proprie casse, anzi: ha
chiesto e ottenuto dalla medesima Capitalia un mutuo trentennale appunto di 25
milioni da scontare a tasso di mercato. Quindi Capitalia cede alla Fondazione
due immobili d’inestimabile valore artistico-culturale, e a sua volta ne
finanzia l’acquisto. Nel pacchetto sono compresi i locali che ospitano
l’archivio storico del Banco di Sicilia, che comprende fra l’altro una tavola
pecuniaria del ’500. Toccherà alla Fondazione curarlo, e di ciò è ben lieto
Puglisi, docente di Letteratura comparata e attuale rettore della “Iulm” di
Milano. Inoltre sia Palazzo Branciforte sia Villa Zito erano sottoposti ai
vincoli storico artistici e quindi inalienabili. “Tutto in regola – dice
Puglisi – del consiglio d’amministrazione della nostra Fondazione fa parte la
sovrintendente Adele Mormino, che ci ha assicurato che a suo avviso l’operazione
era esemplare
”. Così, mentre non si è ancora spenta l’eco della cessione
della storica “Villa Igiea” ai Caltagirone, unanimemente definita “svendita”
nella capitale siciliana, arriva sul mercato il fior fiore di edifici che hanno
fatto la storia dell’architettura del ’900 siciliano. A quanto si mormora, la
prossima vendita sarà il palazzotto di piazza Archimede a Siracusa, talmente
liberty che neppure Mussolini osò abbatterlo per il suo “Corso Littorio”. Oggi
il Banco di Sicilia conta 464 sportelli nell’isola. Le altre cifre (con
approssimazioni minime) recitano che Antonveneta e Banca popolare di Lodi hanno
130 sportelli a testa, 140 circa il Credito siciliano (che non è siciliano, come
vedremo), un centinaio la
Banca
nuova, una settantina Credem e Bancaintesa. Infatti si
scrive “Credito siciliano”, ma si legge “Credito valtellinese”. Un tragitto che
nasce come Popolare Sant’Angelo di Licata, Agrigento. Finché dall’altro capo
della penisola, dalla lontana Sondrio, gli imprenditori alpini, già proprietari
della Popolare Santa Venera e della Cassa San Giacomo di Caltagirone, prelevate
in precedenti discese sciistiche, sentirono il bisogno di bagnarsi nel caldo Mar
Mediterraneo. Così nell’anno di grazia 2002 i valtellinesi sbarcarono a Licata e
costituirono coi tre istituti il Credito siciliano con sede ad Acireale, dove
hanno investito alcuni milioni di euro per un centro direzionale faraonico
diretto da Carlo Negrini. “Certo, lo scenario è cambiato e si lavora di
più
– dice Salvatore Battaglia, addetto commerciale di una filiale catanese
però non abbiamo moltissimo da lamentarci. Anzi, hanno promesso pure 200
assunzioni e l’apertura di un centinaio di sportelli
”.


 

Un’altra fantastica
cavalcata

 

Una cavalcata
fantastica quanto quella di Francesco Majolini, 44enne romano che Mediocredito
inviò a Palermo nel ’97 come capo del personale del Banco di Sicilia. Dapprima
si occupò della “fusione” con Sicilcassa. Poi gestì le trattative del
trasferimento del Banco e dei cosiddetti esuberi: “Riducemmo il personale da
11 mila a 8 mila addetti. E’ stata la fusione più importante d’Italia
”,
riferisce con orgoglio. Completata l’opera, esce da Mediocredito assieme agli
altri quattro colleghi inviati in precedenza da Roma a Palermo e si mette a
corteggiare nientemeno che Gianni Zonin, a Vicenza. Obbiettivo: creare una
“Banca nuova” in Sicilia. “Zonin ama la Sicilia e ci dette fiducia”, aggiunge
Majolini. Diede soprattutto i soldi. Fu un’operazione velocissima. La prima
filiale di Banca nuova viene inaugurata a Palermo il 5 ottobre del 2000. Per
farla nascere, fu trasferita la licenza dell’istituto “Celestino Piva” di
Valdobbiadene, la capitale del prosecco. Venticinque filiali ex novo, quindi
venti sportelli di Banca intesa in Calabria nel 2001, e l’anno dopo
l’incorporazione della Banca del popolo di Trapani. Un colpaccio, questo di
Trapani, che ha lasciato uno strascico di polemiche e sospetti. Lo dice a chiare
lettere Eleonora Lo Curto, deputata regionale autonomistica trapanese: “C’era
molta liquidità di risparmiatori e imprenditori agricoli. Centinaia di miliardi.
La banca era attiva, raccoglieva e produceva denaro. Non appariva in sofferenza.
Però sono arrivati e si sono comprati lo stesso gli sportelli. Una tale
espropriazione non può accadere per caso. C’è dietro un disegno, una
strategia
”. Banca nuova, sede a Palermo dalle parti di viale Libertà,
capogruppo la
Popolare
di Vicenza cresce impetuosamente e da Rieti in giù
conta 105 sportelli. Nega Majolini di aver condotto una campagna acquisti di
sportelli e personale a spese del Banco di Sicilia: “Assolutamente. Abbiamo
assunto intelligenze provenienti da tutte le banche, quasi mille, anche
internazionali. Siamo l’unica spa commerciale sorta in Italia nel dopoguerra.
Operiamo con attenzione per le piccole e medie imprese. Pur con azionisti del
nord, abbiamo conquistato la fiducia dei siciliani
”. Rimpiange il professor
Lo Giudice, che nasce bancario e intraprese la sua carriera universitaria grazie
a una tesi proprio sul Banco di Sicilia, i tempi in cui il credito siciliano non
aveva rivali nemmeno in Lombardia e Veneto, un secolo fa, più o meno, a cavallo
fra ’800 e ’900, ai tempi di Crispi, grazie anche al movimento cattolico, alle
casse rurali e urbane, quando ancora l’impero dei Florio dominava i mari. “A
questo punto la nostra salvezza può venire solo dalla globalizzazione. E’ una
battaglia di retroguardia difendere i confini dell’Italia
”. Tanto i
siciliani ci sono abituati: normanni o piemontesi, valtellinesi o angioini,
vicentini o aragonesi: che differenza fa?


 

Giuseppe
Mazzone
Il Foglio, 19 gennaio 2006

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